foto in apertura: Agrofly
di Maurizio Gily
Agrofarma, l’associazione di Federchimica che rappresenta le aziende italiane attive nello sviluppo di prodotti per la difesa dell’agricoltura da parassiti animali e vegetali, lancia alle istituzioni europee un messaggio netto: “Noi siamo concordi con quelli che sono gli obiettivi di fondo della strategia Farm to Fork – spiega Riccardo Vanelli, presidente di Agrofarma Federchimica – perché ovviamente l’obiettivo è creare un sistema agricolo sempre più sostenibile. Noi crediamo che la soluzione non passi attraverso una limitazione dell’utilizzo di questi strumenti così fondamentali per gli agricoltori ma invece passi attraverso l’innovazione, anche utilizzando tecnologia nuove come la tecnologia digitale dell’agricoltura 4.0 che può aiutare per gestire al meglio i nostri prodotti. ”.
Che le associazioni che rappresentano la chimica in agricoltura non condividano l’obiettivo dell’abbattimento dei prodotti chimici pare ovvio, visto che tale strategia andrebbe a tagliare i loro fatturati (anche se stanno già tamponando il problema, con sempre nuove registrazioni di prodotti “alternativi” non di sintesi), come è altrettanto scontato che l’universo dei consumatori, prevalentemente lontani dal mondo agricolo, plauda all’idea della “meno chimica”.
In mezzo ci sono gli agricoltori, la cui voce però, in questa fase, pare piuttosto debole, e poco supportata dai media.
E’ bene qui ricordare che la categoria più esposta al “rischio chimico” è proprio quella di chi i prodotti li usa e i maneggia, cioè gli agricoltori stessi. Senza tralasciare il fatto che la “chimica” incide notevolmente sui costi di produzione. Per concludere che, se c’è una categoria che avrebbe tutto da guadagnare dall’abbattimento, o dall’abolizione totale, della “chimica “, sono proprio gli agricoltori. La domanda quindi è semplice: perché usare la chimica, se fosse possibile farne a meno senza compromettere la produzione?
E’ necessario un bagno di realtà. E’ difficile ipotizzare che l’obiettivo del -50 % in 8 anni possa essere raggiunto. Ma senza dubbio ci sono azioni fondamentali da compiere per avvicinarsi, quantomeno, all’obiettivo:
- migliore formazione degli agricoltori, e miglior supporto dell’assistenza tecnica pubblica e “para-pubblica”: mi riferisco ai settori fitosanitari delle regioni, che sono gravemente deficitari di organico e di mezzi: mi riferisco inoltre alla rete di assistenza tecnica legata ai CAA, la cui operatività dovrebbe svolgersi in buona parte in campagna mentre è sopraffatta dalla carta e dalla burocrazia.
- l’uso di machine e tecnologie più moderne. Modelli biologici, limitazione della deriva, migliore messa a punto dei dosaggi in relazione a forma e sviluppo della chioma..
- Lo sviluppo di prodotti alternativi alla chimica di sintesi, dai fitofarmaci di origine naturale ai biostimolanti, fortificanti, induttori di resistenza, organismi e microrganismi antagonisti. E’ un settore in forte crescita e su cui anche le multinazionali stanno investendo ingenti risorse di ricerca e sviluppo. L’efficacia di questi prodotti non sempre è comparabile a quella dei fitofarmaci tradizionali, ma oltre a questa ci sono altre questioni: non sono agrofarmaci anche questi? Se hanno un qualche profilo di rischio per l’uomo o per l’ambiente sono senza dubbio ascrivibili per legge alla categoria pesticidi, ed è ininfluente se siano o meno ammessi in agricoltura biologica. Se parliamo ad esempio di rame e zolfo, baluardi classici del biologico in viticoltura, osserviamo una evidente contraddizione all’interno della strategia “farm to fork”, che punta anche a incrementare il biologico: un’azienda che da convenzionale usa solo prodotti di sintesi e passa al biologico usando rame e zolfo non solo non diminuisce, ma aumenta fortemente il consumo di fitofarmaci, visto che i dosaggi sono nettamente superiori . Per cui ragionare in termini di chilogrammi non ha, evidentemente, molto senso, si deve ragionare sul grado di impatto ambientale, sia per la produzione dell’agrofarmaco che per il suo utilizzo, e forse farlo senza distinzione tra prodotto “naturale” (che è frutto comunque di una manipolazione chimica per la sua estrazione) e di sintesi . Impatto che ad esempio per il rame non è trascurabile, tanto da averne fortemente limitato l’uso, e se ancora non è stato bandito è solo per mancanza di alternative. Questo vale, in vari casi, anche per prodotti di sintesi che ad oggi per alcune produzioni è molto difficile sostituire.
- In ultimo, non si può più chiudere la porta in faccia alla genetica, in particolare a quella di ultima generazione (tecniche di evoluzione assistita). Si stima che a partire dal secolo XIX ad oggi, con una forte accelerazione negli ultimi decenni, siano arrivati in Europa 1500 parassiti alloctoni, di cui 500 insetti. Le piante che da secoli coltiviamo si sono evolute in assenza di questi parassiti e non hanno sviluppato le risorse genetiche per contrastarli. In natura una situazione del genere si può evolvere in tre modi: l’estinzione della specie, la sua sopravvivenza in forma stentata (pensiamo ad esempio alla grafiosi dell’olmo: nuove piante nascono dalle ceppaie, ma muoiono prima di “diventare grandi”), oppure la selezione di individui più tolleranti al parassita per effetto di mutazione o di incrocio (che nel caso di resistenze acquisite vuol dire normalmente incrocio interspecie, quindi un ibrido). In agricoltura abbiamo finora cercato di contrastarli con vari mezzi: la chimica, l’incrocio, l’innesto (quando il parassita colpisce l’apparato radicale), e, in tempi più recenti, con agenti mutageni e con la transgenesi. Poiché oggi la scienza ci mette a disposizione strumenti in grado di “copiare” i meccanismi naturali della mutazione o dell’incrocio senza andare a cercare geni in specie lontane (ammesso che questo sia un problema, ma ammettiamo che lo sia) né usare radiazioni o mutageni, sarebbe opportuno che queste tecnologie entrassero almeno nel bagaglio delle possibilità. Pensare di fare a meno sia della chimica che della genetica non è realistico, e quindi non succederà.