Il mondo del vino è un microcosmo addentrandosi nel quale si aprono mille e più sfaccettature, interconnessioni, peculiarità, per cui approcci generalisti spesso non colgono l’essenza di gran parte di esso.
I più cattivi direbbero forse che non colgono l’essenza di nulla. Tuttavia alcuni fenomeni a valenza generale esistono, e bisogna tenerne conto. Perlomeno in Europa i consumi potenziali non sono più tanto legati alla possibilità che nuovi consumatori ‘scoprano’ questo prodotto, ma all’eventualità che la percezione delle caratteristiche positive del vino possa continuare a prevalere su quelle negative, verdetto affatto scontato. Ciò sia sul fronte del rapporto, altalenante, vino e salute (o meglio, vino e ricerca medico-scientifica), sia su quello più recente dell’impatto del prodotto sull’ambiente. Riguardo al primo punto l’esperienza dovrebbe averci insegnato che, per gli alimenti in genere, i responsi scientifici sfornano quasi quotidianamente ‘ricette’ di vita che limitano, bandiscono o promuovono un prodotto rispetto all’altro, creando in tal senso un’isteria delle conoscenze. Un esempio? Il consumo di burro, uova, carne o formaggi che viene alternativamente esaltato o condannato!
Ciò anche perché una volta ne viene preso in considerazione il contenuto in grassi, l’altra quello in sale, l’altra ancora quello di eventuali tossine. Il vino non fa eccezione; è tuttavia chiaro che se viene visto soprattutto come bevanda idroalcolica la presenza di alcol zavorra moltissimo il suo appeal, fino ad annullarlo del tutto nelle letture più integraliste. Quando invece, partendo sempre da dosi moderate, se ne contemplano le doti alimentari all’interno di una dieta equilibrata, i caratteri positivi sopravanzano quelli negativi. Che fare? Dedicarsi alla produzione di vini a bassa (o nulla) gradazione alcolica può essere una via virtuosa per alcuni, mentre relativamente ai vini tradizionali dobbiamo vigilare sul ‘sentiment’ salutistico imperante e gestire con attenzione i responsi scientifici, anche quelli favorevoli.
La moderazione è ideale pure nella comunicazione. Riguardo gli aspetti ambientali, a tutto tondo, i fronti aperti sono diversi. Il più ‘caldo’ oggi, per vari motivi, è quello dell’impatto non tanto del vino, quanto della filiera. È noto come la viticoltura, a livello globale, sia il comparto agricolo che maggiormente utilizza pesticidi, e questo non è un record di cui andare fieri. Siamo tutti impegnati nel ridurre l’input chimico, ma disciplinari di lotta integrata e ascesa del numero di aziende ‘bio’ non intaccano sensibilmente, o abbastanza velocemente, il monte di molecole impiegate fra i filari. Più opportuno prendere in considerazione la possibilità offerta dai vitigni resistenti, di ultima generazione, oramai da anni sottoposti anche al giudizio del palato, spesso favorevole. Non che sia intelligente né proficuo oggi pensare di sostituire il Nebbiolo a Barolo con Cabernet Cortis, Solaris o altri, ma farlo in aree meno blasonate e, diciamocela tutta, con base ampelografica già oggi marginale per il mercato, pare più che possibile, addirittura strategico.
Quale è il punto? Il punto è che un fenomeno di sostituzione varietale di questa portata va governato, e non lasciato al caso o alla sperimentazione del singolo. Nei vari areali deboli (dal punto di vista del mercato) del nostro paese, che purtroppo sono tanti e distribuiti lungo tutta la penisola, dovremmo provare, selezionare e successivamente adottare una o poche varietà resistenti. Ciò al fine di costruire una nuova caratterizzazione produttiva, adatta dal punto di vista pedoclimatico, in linea con i gusti richiesti dal consumatore e soprattutto di massa sufficientemente grande per essere comunicata e promossa. Serve anche un impianto normativo (leggi disciplinari DOC e IGT), che la possano accogliere e valorizzare.
Un lavoro enorme ma anche stimolante, che sarebbe bene iniziare a fare!