L'Editoriale Numero: 04 / 2010

Anche nel vino, solo il classico sfida le mode

La moda, usava dire il pittore catalano Salvador Dalì, è quella cosa che passa di moda.

Maurizio Gily
Anche nel vino, solo il classico sfida le mode

La moda, usava dire il pittore catalano Salvador Dalì, è quella cosa che passa di moda. Per i produttori di uve il fatto che esistano le mode è prevalentemente un danno. Soprattutto per quei produttori che, invece di prevenirle, cercano di inseguirle, piantando vigneti con la varietà che in quel momento si vende bene e fa guadagnare. I quattro o più anni necessari dal momento in cui si progetta un vigneto a quello in cui il vino è sul mercato sono normalmente più lunghi della durata di una “moda”. Ma il peggio è che, siccome molti hanno avuto la stessa idea, mentre la domanda cala l’offerta è magari raddoppiata e spesso la qualità peggiorata, visto che non si è posta l’attenzione giusta a “cosa” e “dove” piantare. Risultato: crollo dei prezzi e lacrime inutilmente versate su investimenti malaccorti. A dimostrazione che la storia non insegna mai niente nei mesi scorsi abbiamo sentito, da rappresentanti ufficiali dei produttori, o, più spesso, da rappresentanti politici locali, auspicare l’aumento o addirittura il raddoppio della produzione per qualche vino a DOC o DOCG che oggi incontra un certo successo. “Perché perdere possibili quote di mercato?” si domandano gli ottimisti promotori dello “sviluppo economico locale”. Risposta: perché proprio questo è lo scopo delle DOC e DOCG: mantenere l’offerta sotto il livello della domanda, per sostenere il prezzo e quindi il reddito dei produttori. Per fortuna qualche segnale di buon senso arriva, oggi, soprattutto dal Veneto: dove molti hanno colto la minaccia che verrebbe dall’allargamento dell’area a DOC del Prosecco, necessaria per meglio tutelare il nome legandolo a un’origine geografica, se questo venisse interpretato come invito a piantare prosecco anche in riva ai fossi o a sovrainnestare la Glera (nome oggi usato per indicare il vitigno) su tutto ciò che esiste. Se ne è parlato in un recente convegno ma si vedrà se alle parole seguiranno i fatti, ad esempio il congelamento degli albi o un lieve incremento circoscritto alle zone più vocate (e chiunque sia l’incaricato di questa zonazione consiglio di metterlo sotto scorta). Intanto sempre in Veneto i produttori di Amarone hanno messo in atto misure concrete per ridurre il volume dell’offerta mentre in altre regioni, con i listini a picco, si continua a perdere tempo in chiacchiere. Limitarsi però a volte non basta perché ci sono, appunto, le mode. Per loro natura le mode sono imprevedibili e sorprendono regolarmente gli esperti di marketing, anche i più bravi come gli australiani, facendo carta straccia delle loro previsioni. Come si sfugge alle mode? Prendiamo l’abbigliamento. Una giacca rossa può essere di moda un anno, ma l’anno
dopo potrebbe far ridere: lo stesso non vale per un abito grigio, meno “glamour” ma più longevo. Tornando a noi, forse non è opportuno che tutti (non parlo ovviamente delle grandi case vinicole nazionali ma dei piccoli produttori) abbiano in gamma tre spumanti, due passiti, quindici rossi e dieci bianchi per aver aggiunto ogni anno un prodotto più “di moda” che spesso “cannibalizza” gli altri (che quindi si fatica di più a vendere). Nel vino un marchio acquisisce valore più per la sua continuità che per la sua capacità di seguire le tendenze. È solo il rapporto con il territorio, con i vitigni autoctoni, con il sapere del passato, con le tipologie che in quel territorio possono dare il meglio, a dare questa continuità. Innovare si può, anzi si deve, per fare vini migliori o per razionalizzare la produzione, ma non per il puro gusto di farlo. Piuttosto per raggiungere quel livello di qualità, quelle caratteristiche identitarie tanto elevate e almeno in parte ripetibili nel tempo da fare di quel prodotto un “classico”. Un risultato che non si raggiunge in pochi anni, ma al quale, almeno chi opera in aree ad alta vocazione, dovrebbe tendere con decisione. Ho recentemente partecipato a una degustazione di Barbera d’Asti Nizza con diversi giornalisti. Una critica rivolta ai vini da molti colleghi è stata: “vini troppo morbidi e concentrati e con troppo legno”. In realtà questi vini sono in parte il frutto delle critiche di alcuni anni fa, talvolta provenienti dalle stesse persone: “vini troppo diluiti e acidi”. Mi sono permesso quindi di consigliare ai produttori di ascoltare i critici, ma non troppo, tanto non saranno mai contenti (se no che critici sarebbero?), e di seguire una loro strada, una loro idea di come deve essere quel vino: a mio modesto avviso nel caso specifico lo stanno già facendo egregiamente. Molti tra i più famosi Chateaux francesi fanno due soli vini, un grand cru e un vino di secondo livello. Da duecento anni o più. E anche la bottiglia e l’etichetta, se pure sono cambiate, l’hanno fatto in modo da darlo a vedere il meno possibile. Per chi crea abiti abbandonare la linea dell’anno prima è normale, ma se una cantina smette di fare uno o più vini che faceva o se il loro gusto cambia radicalmente i suoi clienti si chiedono se è stata venduta, se il titolare è morto … eccetera. Quindi aggiungere nuovi prodotti alla gamma o modificare quelli esistenti non è di per sé sbagliato, ma è meglio pensarci bene: soprattutto deve essere parte di un progetto a lungo termine, oppure, se così non è, bisogna essere consapevoli di lanciare una meteora, con i rischi che ciò comporta.