Il tema della regolamentazione del settore vitivinicolo e della sua influenza sulla produzione, non solo sotto il profilo virtuoso (sicurezza e consapevolezza alimentare, prevenzione delle frodi commerciali, regolamentazione della concorrenza) è sotto la lente di ingrandimento da un po’. Negli ultimi anni, tuttavia, complice la congiuntura economica internazionale e il rallentamento dei flussi di mercato che, a partire dai primi anni ’90, avevano garantito una consistente (e ritenuta solida) espansione internazionale ai vini italiani, la questione è passata dai dibattiti accademici agli incontri e ai sodalizi di produttori. La ragione è semplice: non c’è dubbio che controlli, balzelli, adempimenti formali siano aspetti dell’attività del produttore vitivinicolo che ne assorbono tempo, energie e fondi. Se la crisi delle vendite determina minori retribuzioni al lavoro, obbligando a fare più ore e a rinunciare a collaboratori, in definitiva lascia meno tempo: dunque il superfluo richiede tagli, o come si dice oggi, razionalizzazioni. Perché non è certamente la stessa cosa perdere mezze giornate in corridoi e moduli se le tue bottiglie invece di valere 10 valgono 5 e soprattutto se il magazzino continua a riempirsi. A partire dallo spunto di un editoriale di Carlo Petrini, uscito il 9 gennaio su Repubblica, l’8 marzo scorso si è svolto a Pollenzo un incontro dal titolo “La vendemmia italiana uccisa dalla burocrazia”. La serata è stata vivace e molto partecipata, con testimonianze in taluni casi assolutamente toccanti, per la denuncia di soprusi. Ne varrebbe la pena, ma il tema di questo contributo non può essere solo il resoconto di queste, bensì un tentativo di analisi per punti della situazione e delle ragioni che la rendono insostenibile. Innanzitutto bisogna chiarire che la questione non è scindibile in aspetti burocratici e aspetti normativi. Se infatti a livello accademico si può disquisire di ciò che è problema di applicazione o di prassi amministrative e di ciò che invece pertiene alla legislazione UE e nazionale, a livello pratico nessun produttore può essere interessato a una distinzione teorica, che non ha riflessi pratici. Un medico dell’ASL che dovrebbe verificare le condizioni igieniche della cantina e chiede di vedere le analisi dei vini o il quaderno di campagna, può farlo, deve farlo, ha diritto di farlo? Chi se ne importa? Lo fa, e se lo fa, quale produttore, anche potendo, gli direbbe che non ne ha diritto? Eppure un simile atteggiamento è solo un esempio delle miriadi di doppioni inutili che affliggono il lavoro di chi dovrebbe pensare a coltivare vigne e fare vini buoni, trovando aiuto, non ostacoli, nel fare questo. Altri esempi? Le analisi del terreno ripetute (e pagate più e più volte) per lo stesso terreno, oppure le dichiarazioni delle superfici vitate cui sovrintendono mezza dozzina di autorità, con il risultato che, anche senza dolo, il loro computo non torna mai. Dunque abbiamo un problema in cui non si può distinguere sensatamente tra buona prassi e buona legislazione, perché quest’ultima è facilmente vanificata dall’ottuso burocrate e la peggiore legislazione è mitigata nei suoi perniciosi effetti da funzionari intelligenti, oltre che solerti: tutti in Toscana conoscono, a questo proposito, l’ottimo esempio rappresentato da Piscolla. Ci sono cinque linee fondamentali su cui l’Università degli Studi di Scienze Gastronomiche lavora, insieme alla Federazione Vignaioli Indipendenti e a Slow Food, perché la situazione attuale conosca un miglioramento strutturale e non l’ennesima pezza su un vestito troppo vecchio. In primo luogo devono essere radicalmente eliminate le vestigia del passato che si tramandano senza più alcuna utilità o sostenibilità economica. Possiamo fare l’esempio facile della tracciabilità delle fecce (che aveva un senso quando i vinificatori erano distillatori di frodo in massa, ma oggi?) o sull’obbligo di conferimento (per di più oggi sempre più oneroso) delle vinacce: verificata la sostenibilità agronomica, data dal rapporto tra vigne e vino prodotto, solo l’eventuale eccedenza di frazione solida del pigiato dovrebbe andare alla distilleria necessariamente, mentre il resto dovrebbe essere sparso sul terreno. E questo non più nell’ottica di garantire il controllo statale sugli spiriti, ma per una giusta e doverosa tutela ambientale, con le conseguenze che, intuibilmente, derivano da questo cambio di paradigma. In secondo luogo devono essere eliminati i doppioni. Se da un registro pubblico si ricavano certe informazioni, non deve essere lecito andarle a ri-chiedere al viticoltore; se su un terreno è stata condotta un’analisi, è lecito richiederla solo trascorsi almeno 5 anni. E soprattutto non è lecito che enti diversi, deputati a controlli diversi, chiedano ciascuno la propria analisi, moltiplicando i costi e alimentando un sottobosco di “servizi” che non sono essenziali naturalmente, ma resi tali dalla selva normativa e regolamentare. Analogamente, i controlli in cantina con esito favorevole devono determinare una rarefazione della loro frequenza e, viceversa, devono fare i controlli con esito negativo. Si dirà: ma i controlli devono sempre avere esito negativo. Poiché è arcinoto che spesso chi controlla non se ne va finché non trova qualcosa che non va. E questo ci permette di arrivare al terzo punto della svolta necessaria. È necessario, anzi: costituzionale, passare dalla presunzione di colpevolezza del controllato alla presunzione di innocenza. Questa inversione, per non rimanere lettera morta o semplice slogan, necessita di un training adeguato e di una rinnovata missione della burocrazia. Quest’ultima infatti deve passare dalla visione ottocentesca (e di stampo francese) dello Stato entità sovraordinata ai cittadini, che li controlla come un severo censore dall’occhio torvo, a quella del servitore pubblico che, in quanto pagato dalle tasse, è al fianco del cittadino per farlo migliorare, per consentirgli di colmare lacune. Insomma, scendendo nel pratico, perché per un cartello non adeguato in cantina o un errore nella formulazione dell’etichetta di un vino (che però non ometta delle informazioni essenziali per il consumatore) o un errore percentualmente irrilevante nella rendicontazione di bottiglie o numero di ceppi o ancora per lo spostamento di una vasca in cantina, non si dà un tempo per adeguarsi, correggere, ripristinare invece di infliggere subito sanzioni totalmente sproporzionate rispetto al rischio, alla gravità del fallo e anche alle possibilità aziendali? Il quarto punto su cui deve concentrarsi una ridefinizione strutturale del complesso burocratico normativo intorno al mondo del vino è l’adozione di linee ispiratrici forti e soprattutto non contraddittorie. Non esiste alcuna giustificazione seria per cui un produttore di vino debba annotare ogni cambio di vasca del proprio vino in cantina, consentendo così un controllo capillare a pochi funzionari, e poi un consumatore non abbia diritto in alcun caso di sapere quale sia l’anno di produzione di un vino (ex VdT), trovandosi così nell’impossibilità di darsi una ragione per cui una bottiglia che appare passata e una in perfetta forma abbiano (eccezion fatta, al limite per il lotto) la stessa etichetta. E analoga osservazione può muoversi a proposito delle indicazioni delle varietà ampelografiche impiegate in etichetta. Rispetto al desiderio legittimo dei consumatori di saperne sempre di più , che senso ha che dietro un ex VdT ci possa essere un vitigno aromatico, un semi aromatico o un vitigno non aromatico? A chi giova il disorientamento? E soprattutto: è lungimirante chiedere semplificazione e comprensione per i bisogni dei viticoltori e mostrarsi invece sordi rispetto a istanze che non appaiono per nulla incomprensibili o illegittime di chi compra il vino? L’ultima linea di intervento mi pare dovrebbe essere un ritorno al buon senso, che in termini giuridici si traduce nell’applicazione assennata del principio di sussidiarietà verticale, cardine del nuovo Titolo V della Costituzione. Questo significa che il federalismo va bene dove serve. Che senso ha che ICQ diversi abbiano idee diverse su come va redatta un’etichetta? Che senso ha che la tolleranza di condizioni assolutamente naturali in cantina (come la presenza di muffe), o viceversa la richiesta di allestire condizioni da camera bianca, varino da regione a regione? Dal momento che la legislazione vigente in materia vitivinicola è oggetto di regolamenti UE che operano direttamente negli Stati membri e del D.Lgs. 61 del 2010 che ha armonizzato il sistema delle DOC e IGT al rinnovato quadro dell’OCM Vino, perché dobbiamo sopportare che, passato il confine regionale, richieste, tolleranze e prescrizioni siano diverse. Non è forse questo un federalismo del tutto malinteso e un freno allo sviluppo ed al mercato che, anzi, da secoli sappiamo giovarsi di condizioni quanto più omogenee nel trattamento dell’imprenditoria? Le particolarità vanno ammesse solo dove hanno senso: le regole e i contributi per vigneti di montagna debbono essere diversi rispetto a quelli per i vigneti di pianura. Ma con quale giustificazione possono esserlo le richieste degli organismi di controllo in merito al contenuto delle etichette? Intanto, qualcosa si muove e il Reg. UE 314/20121 approvato il 12 aprile ha soppresso, perché inutile (art. 9 del preambolo), l’obbligo della registrazione di ogni aggiunta di solforosa ai vini. Non è una cosa da poco, ma nel quadro complessivo, come abbiamo cercato di illustrare, non basta.
1 http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:L:201:1 03:0021:0037:IT:PDF
Michele A. Fino, 39 anni, è professore associato di Fondamenti del Diritto Europeo nell’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo. Membro del Comitato Tecnico Scientifico del CERVIM è stato assessore all’Agricoltura di Saluzzo e in tale veste ha ideato il Centro per le Rarità Ampelografiche Cuneesi “Giuseppe di Rovasenda”. Vive a Revello, dove coadiuva la moglie nell’azienda vitivinicola di famiglia.