Enologia Numero: 04 / 2019

Colfondo: tradizione, territorio e tecnica

Più che invenzione di neo produttori ‘naturisti’, Colfondo, Prosecco rifermentato in bottiglia, è un vino ancestrale riproposto da chi mira a differenziarsi dalla massificazione della bollicina più nota.

Alessandra Biondi Bartolini
Colfondo: tradizione, territorio e tecnica

Il Colfondo è un prodotto del territorio, una tradizione sopravvissuta grazie soprattutto all’attaccamento mai abbandonato dei vignaioli e dei consumatori del Triveneto. La prima versione di Prosecco con le bollicine, rifermentato in bottiglia e non sboccato, a differenza di molti suoi cugini ancestrali o Pet Nat (abbreviazione di Pétillant Naturel), anch’essi torbidi per la presenza dei lieviti, non appartiene necessariamente al mondo dei vini naturali, quanto piuttosto a quello dei piccoli vignaioli. Sono loro che negli ultimi anni lo hanno riscoperto e fatto riscoprire, nel tentativo di differenziare e affermare la propria identità all’interno del Mondo Prosecco. Il Colfondo è il modo che i piccoli produttori delle tre denominazioni del Prosecco hanno trovato per non essere schiacciati dal fenomeno del vino rifermentato in autoclave più famoso del mondo.A raccontarci storia, tecnica e rischi del Colfondo è Luca Ferraro   (nella foto) che con il padre Danilo, nel 2008 ha ricominciato a produrre, nell’azienda agricola Bele Casel dell’Asolo Prosecco DOCG, questo vino frizzante non sempre facile da presentare a  chi cerca un Prosecco, riuscendo da allora con costanza e passione a farne una sua bandiera e a conquistare anche gli importatori americani.

Luca Ferraro Bele Casel 

La genesi, prima dell’acciaio …

Il Colfondo o Prosecco sui lieviti è stato il primo prodotto frizzante della Marca Trevigiana, nato quando ancora per produrre bollicine non c’era alternativa alla rifermentazione in bottiglia, prima quindi della diffusione ad opera di Antonio Carpenè Malvolti dell’autoclave e delle linee di imbottigliamento isobarico. “Ci sono due storie che raccontano come sia nato il Prosecco sui lieviti, ed entrambe contengono una parte di verità.” racconta Luca Ferraro “La prima sostiene che in passato le vendemmie avvenissero molto più tardi e che le fermentazioni facilmente andassero incontro a un arresto dovuto alle basse temperature.  I vini imbottigliati riprendevano in primavera a consumare gli zuccheri residui; per impedire che i tappi saltassero si cominciò prima a legarli con lo spago, poi a chiuderli con il tappo a corona e quello che si ottenne fu un nuovo prodotto. La seconda teoria, più pragmatica e meno poetica, sostiene invece che i vini, macerati per favorire l’estrazione del mosto nella fase di torchiatura e fermentati senza alcun controllo, mancassero di eleganza e che per questo l’arricchimento con lo zucchero e la successiva rifermentazione in bottiglia derivasse dalla necessità di migliorare e rendere più piacevole un prodotto non esattamente perfetto.”

Storie entrambe più che plausibili che portarono alla nascita di un prodotto frizzante e gradevole, ottenuto da un processo simile a quello applicato per la spumantizzazione con metodo classico ma non sboccato e di conseguenza servito con la sua naturale torbidità per la presenza del residuo dei lieviti. Un vino in passato apprezzato soprattutto dai locali, che restò l’unico prodotto imbottigliato nelle piccole aziende fino agli anni 70-80 del secolo scorso, con l’ascesa del Prosecco dry ed extra dry, apprezzatissimo dai mercati, dalla critica e dai concorsi, che esaltavano e premiavano la brillantezza e i vini bianco carta. Un clichet qualitativo che non poteva accogliere i vini torbidi e spesso imprecisi dei piccoli produttori e che relegò il vino rifermentato sui lieviti a un rango inferiore, dove continuò a sopravvivere al fianco del parente nobile in quello che era il mondo del vino della damigiana e della tradizione contadina.

Passione contadina, contro le logiche distributive

Anche tra i produttori il mondo dell’autoclave era diventato un vanto che segnava un passaggio di generazione e di stile enologico, l’ingresso nel mondo dorato degli Spumanti con metodo Martinotti, fatto di lustrini e paillettes che stava facendo la ricchezza delle famiglie.” ricorda Luca.

È in questo periodo che nasce il termine colfondo, per identificare il “vin col fondo” ancora ricercato dai locali, e distinguerlo da quello spumante e limpido prodotto in autoclave.

Un termine regionale e quasi familiare che meriterebbe di essere protetto per legare definitivamente il colfondo al suo territorio, differenziandolo dagli altri nomi dati nelle diverse regioni ai vini rifermentati in bottiglia.

Per sua natura il Colfondo non è un vino da grande distribuzione, dove la presenza del deposito non può essere spiegata al consumatore che cerca sullo scaffale una bottiglia di Prosecco. In  questo momento storico esso invece rappresenta un prodotto indispensabile ai piccoli produttori, per dare un’identità al loro Prosecco e alla loro interpretazione del territorio, in canali di vendita più adatti e diretti nel rapporto con il consumatore. Purtroppo quello che ci voleva, cioè un marchio che ci aiutasse a promuovere vino e territorio, non è stato gestito né protetto”.

I disciplinari del Prosecco, le due DOCG e la DOC, con alcune differenze, contemplano da sempre la tipologia del vino rifermentato in bottiglia, ma una proposta avanzata dai Vignaioli Indipendenti qualche anno fa evidenziava la necessità di un marchio per il Colfondo che identificasse maggiormente questi prodotti, introducendo la possibilità di utilizzare il tappo a corona e un sistema di controlli che limitasse l’uso del nome ai soli prodotti realmente ottenuti senza l’uso dell’autoclave. Lo sfruttamento del marchio “Colfondo” tuttavia, già registrato e di proprietà di due aziende private, non è stato concesso in uso ai Consorzi che sollecitati hanno solo in parte accolto le richieste della sezione trevigiana di FIVI, creando un marchio “Prosecco sui lieviti”, che non autorizza l’uso del tappo a corona e che introduce alcuni controlli in fase di produzione. Una definizione che però non soddisfa i vignaioli “Senza la parola Colfondo che non viene così protetta in modo adeguato e rischia invece di essere abusata come già sta avvenendo in ogni parte del mondo, non c’è interesse a identificarci sotto un marchio debole, il Prosecco sui lieviti, che non caratterizza né la nostra storia né il nostro territorio” osserva Ferraro.

Poca tecnologia non significa poca tecnica

Un vino della tradizione che oggi viene riscoperto e proposto al consumatore moderno può scegliere di non fare uso di alcune tecnologie  (per sua natura il Colfondo ne richiede poca) o della chimica, ma non può prescindere dalla tecnica e dal controllo. Per garantire al consumatore un vino comunque corretto e omogeneo, il processo deve essere conosciuto e gestito in tutti i suoi aspetti e nelle sue criticità, soprattutto per un prodotto che, una volta imbottigliato, non consente interventi enologici di alcun tipo.

Per Luca e Danilo Ferraro il nuovo corso del Colfondo di Bele Casel è nato di anno in anno da una continua sperimentazione, necessaria per ottenere un vino che risponda a dei requisiti di qualità senza perdere in autenticità, adatto a presentarsi sui mercati italiani ed esteri.

La riscoperta avviene per Bele Casel con il vino della vendemmia 2008: “Quel primo anno è servito principalmente per comprendere, alla luce delle conoscenze enologiche più recenti, quali fossero i punti critici sui quali intervenire per perfezionare il processo tradizionale. Ci siamo resi conto che per i nostri vini il rischio maggiore è legato all’assenza di controllo delle deviazioni batteriche: una base sporca e con livelli di solforosa molto bassi come quelli che utilizziamo noi si prestava molto facilmente all’avvio della malolattica in bottiglia, con la conseguente perdita di aromi, comparsa di difetti e forti differenze tra una bottiglia e l’altra.” La soluzione viene identificata quindi negli anni successivi nella scelta di fare la malolattica alla massa prima dell’imbottigliamento, seguita da una filtrazione sterilizzante della base inizialmente a farina fossile e poi a cartucce, e successivamente dall’inoculo e l’imbottigliamento.

La preparazione della base non è diversa da quella che si fa per il Prosecco che poi sarà rifermentato in autoclave: una pressatura soffice, l’inoculo dei lieviti selezionati più adatti e una gestione corretta della prima fermentazione fino all’esaurimento degli zuccheri (alcuni produttori arrestano il processo per mantenere gli ultimi zuccheri residui e poi conservano il prodotto a bassa temperatura). La scelta del vigneto è fondamentale e nel Colfondo ogni produttore lega la qualità di questo vino all’espressione del suo vigneto migliore, che per Bele Casel è la vigna più vecchia, con piante addirittura centenarie, sui ciglioni della collina di Monfumo.

Non essendo la limpidezza e l’assenza di precipitazioni uno degli obiettivi di qualità perseguiti, e poiché la casse proteica o i cristalli di tartrato non rappresentano un rischio per la qualità organolettica, il vino base non viene trattato con alcuna chiarifica deproteinizzante, né stabilizzato a freddo.

Dopo la fermentazione malolattica il vino è conservato a bassa temperatura fino alla filtrazione, l’arricchimento con il mosto e l’inoculo del ‘pied de cuve’ prima dell’imbottigliamento, che avviene il giorno successivo alla preparazione della massa.

La gestione dei fenomeni di riduzione nel vino base non pone generalmente particolari difficoltà, ma sicuramente è preferibile favorire una certa apertura e ossigenazione della base al momento della presa di spuma, per ridurre il rischio dell’insorgenza di difetti di riduzione in bottiglia e per garantire una certa quantità di ossigeno necessario al metabolismo dei lieviti.

Per produrre DOCG il disciplinare non prevede deroghe al tappo in sughero e di conseguenza le bottiglie devono essere conservate in piedi anche durante la rifermentazione.

Per poter utilizzare il tappo a corona, più adatto alla conservazione della bottiglia distesa in una posizione che favorisce il contatto della biomassa del lievito con il vino, sia nel corso della rifermentazione sia nella successiva maturazione, molti produttori rinunciano alla DOCG e declassano il Colfondo a DOC o a vino da tavola.

Una volta in bottiglia sarà il metabolismo del lievito, con la rifermentazione degli zuccheri fino alla formazione di 2/2,5 atmosfere e successivamente con i processi di autolisi delle cellule, che porterà  al risultato finale di un vino che continua ad evolversi nel tempo, per dare un prodotto che dai primi mesi dopo la fine della presa di spuma, fino anche a diversi anni, presenta una longevità sconosciuta alla maggior parte dei vini rifermentati in autoclave.

Sono i processi di autolisi delle cellule e l’azione antiossidante del lievito infatti che definiscono l’evoluzione del vino e ne garantiscono la shelf life.

Quel lievito in fondo alla bottiglia

Al termine della fermentazione, una volta esauriti gli zuccheri necessari per la crescita e il metabolismo, le cellule del lievito muoiono ma i processi chimici e biologici, così come gli scambi e le interazioni dei loro componenti con il vino, non finiscono.

Sono gli enzimi endogeni, proteasi e nucleasi, che degradano le strutture e le macromolecole della cellula, ad innescare il processo di autolisi, seguito dal rilascio dei prodotti dell’idrolisi attraverso la membrana, che a sua volta ha perso la sua selettività negli scambi tra la cellula e l’esterno.

Alle temperature di cantina il processo di autolisi è lento e graduale e i vini affinati sulle fecce si arricchiscono progressivamente di amminoacidi, oligopeptidi, polisaccaridi e nucleotidi che modificano la struttura e la stabilità colloidale del vino oltre che il suo profilo organolettico, relativamente soprattutto all’espressione aromatica, alla morbidezza e alla sapidità.

Studiata principalmente nello Champagne e nei vini spumanti prodotti con Metodo Classico, che prima della sboccatura sostano sui lieviti per un periodo più o meno lungo, l’evoluzione dei Colfondo, che si interrompe soltanto con l’apertura della bottiglia, è difatti quella di un vino che da fresco, fruttato, acido e leggermente spigoloso nei primi mesi dopo la rifermentazione, vede comparire note più evolute e diviene gradualmente più morbido e complesso.

Un’evoluzione che tuttavia non è mai ossidazione, non solo perché il processo non prevede momenti come la sboccatura nei quali potrebbe verificarsi un accesso incontrollato di ossigeno, ma anche in quanto sono le cellule stesse del lievito ad agire da antiossidanti, conservando la capacità di consumare ossigeno a lungo dopo la loro morte e grazie al rilascio di sostanze antiossidanti come il glutatione. L’unico rischio potrebbe derivare forse da uno stato di cattiva conservazione del sughero ma, come visto in precedenza, è il tappo a corona il futuro del Colfondo.