L'Editoriale Numero: 03 / 2019

De-integrazione e mercato intermedio del vino

Millevigne 3/2019 *** La filiera vite-vino si caratterizza per la molteplicità dei modelli produttivi, differenti fra le varie regioni del mondo ma anche all’ interno di aree ben più ridotte. Molto è funzione del segmento di mercato in cui si collocano i prodotti, ma spesso gli aspetti culturali/tradizionali la fanno da padrone, non sempre indirizzando alla migliore razionalità.

Matteo Marenghi
De-integrazione e mercato intermedio del vino

Di pari passo, le fasi produttive trovano economie di scala in condizioni molto diverse; contenute in viticoltura, intermedie nella trasformazione ed elevate nel confezionamento. Studi infatti indicano in una superficie di 200 ettari quella oltre cui non si hanno significative economie in viticoltura; il minimo dei costi per la vinificazione si raggiunge in cantine con capacità di 100.000 ettolitri (alimentate da 1.000/1.500 ettari); nell’imbottigliamento, infine, le migliori performance si raggiungono trattando almeno 100 milioni di pezzi/anno.

Se il modello produttivo ingloba solo una o due delle tre fasi, nasce la necessità del collegamento commerciale fra gli attori. Sempre più infatti, le problematiche del marketing riguardano non solo il prodotto finito, ma anche quello intermedio (uva e vino), ed aumentano globalmente sia gli scambi di vino sfuso sia i grandi imbottigliatori. Per i vini di altissimo pregio la produzione è verticalmente integrata, in un territorio circoscritto, con scala produttiva ridotta (la grande marginalità supplisce ai piccolissimi numeri). All’opposto, chi si orienta verso i vini basic (prezzi entro i tre euro/bottiglia per una qualità ‘sana e mercantile’), deve necessariamente tendere alla minimizzazione dei costi, e l’economia di scala la troverà solo con impianti di imbottigliamento di elevatissima capacità. Sarà per costoro vitale anche avere attorno una rete di operatori intermedi da cui rifornirsi.

Ciò fa capire come aree vitivinicole popolate da diversi attori, se ben connessi, possono presentare economie più solide rispetto a dove tutto è comunque sempre integrato. Ovvero, la formula della cantina sociale che imbottiglia, da sempre ritenuta la più virtuosa, potrebbe essere meno efficace di quella che vede più centri che vinificano ed un unico o pochi grandi operatori del confezionamento, capaci di arrivare ad economie di scala diversamente irraggiungibili.

Facendo una foto del nostro tessuto produttivo, sul fronte delle cantine private, la stragrande maggioranza ha la struttura di un’azienda votata alla produzione di vini di altissimo pregio (integrazione verticale della produzione con nulle economie di scala), ma poi origina vini che viaggiano soprattutto nella categoria popular premium (con prezzi al cliente finale da 3 a 6 euro). Sul fronte delle sociali, da sempre in affanno sulla commercializzazione, permane la volontà di arrivare al cliente finale ma, trattando soprattutto vini di fascia bassa, per essere performanti dovrebbero moltiplicare per 10 0 100 le bottiglie prodotte. Parrebbe che entrambi questi modelli rappresentino l’esatto opposto del paradigma produttivo economicamente sostenibile.

Tutto sbagliato quindi? No, perché in questa veloce analisi non abbiamo valutato l’interferenza più forte della produzione italiana, il sistema delle denominazioni. Le Doc obbligano a trattare separatamente partite anche piccole di uva coltivate localmente, e ad imbottigliarle sul posto, a prescindere dalla convenienza economica. Quindi molto si spiega. Certo che se la piramide delle Doc avesse funzionato avremmo piccoli produttori a proporre eccellenze e grandi aziende a fare i vini più correnti (Igt, Varietali e quelli senza menzione alcuna). Invece spesso accade il contrario, e ciò non giova alla razionalità e soprattutto alla capacità competitiva futura del settore.