Economia e Diritto Numero: 02 / 2018

È corsa ai vigneti pregiati

Accelerano le compravendite per il “Vigneto Italia”: a molti investire sui territori d’eccellenza sembra un buon affare.

Andrea Cappelli
È corsa ai vigneti pregiati

“Comprate terreni. Non ne fabbricano più!”. Mark Twain lo predicava già nell’America dell’Ottocento, anche se che il ritorno alla terra dei padri e dei nonni ha un qualcosa d’ancestrale che è scritto indelebile nel DNA dell’uomo.

Ma nell’Italia del terzo millennio la terra da acquistare è soprattutto quella coltivata a vigneto.

E non si parla di uve qualsiasi, ma di quelle da cui si ricavano i più importanti vini tricolori, esportati in tutto il mondo e ormai in grado di strappare quotazioni interessanti sui mercati internazionali. Così se i prezzi del mattone negli ultimi anni sono precipitati, quelli dei vigneti pregiati non solo hanno resistito alla crisi del settore immobiliare ma anzi, con un ulteriore aumento del 30% dall’inizio degli anni Duemila, si sono rivelati tra i migliori beni rifugio. Bisogna sottolineare che una delle motivazioni di questi movimenti di ricomposizione geografica della proprietà è che il mondo del vino sta maturando un lunghissimo processo di professionalizzazione partito alla fine degli anni Settanta. La grandezza media delle aziende cresce – non raggiungeva un ettaro nel 1970, sfiora i dieci oggi – anche se resta piccola in confronto alla concorrenza estera, mentre diminuisce la superficie complessiva coltivata a uva da vino: si è passati da circa 1 milione di ettari ai circa 600mila odierni e se nel 1980 il semplice vino da tavola rappresentava il 90% della produzione, oggi è al 30%; il resto sono bottiglie a denominazione di origine, nel segno di più qualità e meno quantità.

Col consumo interno in continuo calo, un po’ per colpa della crisi, un po’ per le nuove abitudini di consumo soprattutto delle nuove generazioni, e l’export che cresce anno dopo anno. Se fino ad alcuni anni fa le iniziative di acquisto erano prese anche sull’onda del romanticismo e dell’emozione, oggi si basano esclusivamente su una strategia precisa che punta a crescere e a fare massa critica, diversificando e completando al tempo stesso la gamma dei prodotti aziendali. Se poi a compiere queste operazioni sono aziende medio-grandi è ancora più importante perché ne vengono fuori dei “player” con una dimensione vicina a quella necessaria per affrontare in maniera efficace i mercati internazionali, anch’essi sempre più difficili e complessi: proprio ciò che finora al vino Made in Italy è un po’ mancato. Se il benessere di un settore economico si vede anche dalla vivacità degli investimenti, il vino italiano pare godere di ottima salute e di una bella dinamicità, almeno se ci riferiamo ai terroir più prestigiosi, da quelli ormai storici e famosi ad alcune nuove frontiere. Terre vocate e nuove scommesse: Toscana, Piemonte ma anche Sardegna, Marche, Lombardia, Puglia, Sicilia (dove la nuova frontiera è soprattutto l’Etna). Il comparto continua a esercitare un grande appeal nei confronti degli investitori nazionali ed esteri che puntano tanto su territori conclamati, quanto su aree emergenti. È molto più facile trovare un acquirente per un’azienda di grandi dimensioni e con un brand consolidato piuttosto che per una piccola cantina poco conosciuta: il brand infatti svolge e svolgerà un ruolo sempre importante, ma inteso sia come marchio aziendale che come marchio collettivo territoriale nel caso di determinati vini. Se dapprima furono gli Americani, poi i Russi, oggi per i ricchi Cinesi comprare una tenuta in Europa è uno status symbol impareggiabile. E l’Italia è un contesto ambito per fare business attraverso i vigneti, visto che il vino italiano, forte del successo legato all’export, vanta diversi primati: rapporto qualità/prezzo (vale per il vino ma spesso anche per i vigneti), ricchissima articolazione delle sue tipologie, immagine. Ultimamente si stanno riaffacciando sul mercato anche imprenditori italiani che puntano ad arricchire il loro portfolio produttivo, allargando i propri possedimenti o andando a investire in territori del vino diversi da quelli d’origine. Investimenti che in alcuni territori hanno portato talmente in alto le quotazioni dei vigneti che ormai le aziende sono contese più da fondi d’investimento con interessi estesi e differenziati, che da cantine i cui progetti imprenditoriali sono legati esclusivamente al vino. Ma perché, partite lentamente con la crisi del 2008, proprio negli ultimi anni abbiamo assistito a una forte accelerazione delle compravendite? Intanto perché per molte aziende nate negli anni Settanta e nei primi anni Ottanta è terminato un ciclo economico aziendale per l’età avanzata dei proprietari o l’assenza di figli o eredi in grado di proseguire l’attività.

E poi oggi non è più sufficiente essere buoni agricoltori come trent’anni fa, bisogna essere buoni venditori, buoni comunicatori e molto altro ancora: non tutti ce la fanno sia per motivi di preparazione imprenditoriale che per dimensioni, perché piccolo può essere bello, ma anche no. Altro fattore fondamentale è che molte aziende dalla fine dello scorso millennio hanno fatto investimenti importanti (cantine, ristrutturazioni immobiliari, reimpianti, ecc…), i mercati sono sempre più competitivi e quando le banche hanno stretto i cordoni della borsa, chiedendo il rientro dei fidi, il fiato si è fatto corto. Infine i valori fondiari hanno raggiunto degli incrementi ragguardevoli, che umanamente possono tentare al passaggio di mano, mettendo la famiglia economicamente al sicuro per alcune delle prossime generazioni: magari nel timore che gli equilibri economici possano cambiare, anche se c’è chi è pronto a scommettere che la rivalutazione del valore dei terreni continuerà. Il valore delle vigne è naturalmente un argomento molto caldo, soprattutto negli ultimi tempi, viste le transazioni a prezzi eccezionalmente elevati in alcune aree ad altissima vocazione con una variabilità che ha dell’incredibile: si va dai 15mila euro all’ettaro della Sardegna, a 1 milione all’ettaro per il Brunello di Montalcino fino addirittura ai 4 milioni all’ettaro -nuovo record per un vigneto italiano- pagati recentemente per un appezzamento di mezzo ettaro nel cru Cerequio di Barolo. La forbice dei prezzi è ampia, soprattutto nei territori più prestigiosi, e legata a molteplici fattori: dall’essere al confine della proprietà acquirente al potenziale qualitativo dell’uva, all’esposizione, alla natura geologica dei terreni, all’età dei vigneti impiantati, ma soprattutto al marchio, mentre tende a livellarsi nelle zone meno famose. Cifre che spesso tagliano fuori i produttori di vino e diventano accessibili solo a fondi d’investimento, banchieri, grandi industriali o comunque a chi ha disponibilità finanziarie enormi e voglia di regalarsi una griffe dell’enologia. La cosa più sorprendente è che, nonostante l’impennata dei prezzi, la corsa all’acquisto sembra inarrestabile, anzi apparentemente tende a spingerli sempre più su. Abbiamo pensato molto se approfondire o meno la questione delle cifre di vendita della aziende, alla fine abbiamo ritenuto che fosse meglio rinunciare perché nella maggior parte dei casi i passaggi di proprietà avvengono nella discrezione più assoluta e spesso il balletto dei numeri si rivela più una chiacchiera da bar. Dicevano gli anziani che la terra è un investimento che non tradisce mai: a questi prezzi vedremo, ai posteri l’ardua sentenza…