Viticoltura Numero: 03 / 2019

I PIWI bussano alle porte delle Doc

… e l’Europa si divide tra chi le vuole aperte e chi le vuole chiuse

Maurizio Gily
I PIWI bussano alle porte delle Doc

Parliamo qui di varietà nuove, o relativamente nuove, ottenute da incrocio ripetuto di vitigni europei (Vitis vinifera) con viti di altri continenti, America o Asia (Vitis rotundifolia, Vitis amurensis etc.).

Non si tratta quindi di viti ottenute con l’ingegneria genetica modernamente intesa, ma attraverso il tradizionale metodo della fecondazione con impollinazione, in quanto queste specie sono abbastanza affini da essere, tra di loro, fertili. Lo scopo dei costitutori, istituti di ricerca prevalentemente pubblici, è stato quello di selezionare varietà interessanti dal punto di vista enologico, ma resistenti, almeno parzialmente, alle due principali malattie fungine della vite, cioè la peronospora e l’oidio. Questi almeno sono stati i principali indirizzi della ricerca fino ad oggi. La sigla PIWI sta per Pilzwiderstandsfähige Rebsorte, ed è piuttosto usata anche nei paesi non di lingua tedesca in quanto è stata l’università di Freiburg il primo e principale polo di ricerca in questo settore. Non in Francia però, dove i vitigni resistenti selezionati da INRA sono chiamati invece RESDUR (Résistances Durables).

Cos’è l’incrocio ripetuto?

Si racconta in un aneddoto che lo scrittore e commediografo irlandese G. B. Shaw fu avvicinato una volta da una signora più graziosa che acuta, che gli disse “Pensi se avessimo un figlio, con la mia bellezza e la sua intelligenza!”. E che Shaw le rispose “Sì, ma pensi che tragedia se dovesse accadere il contrario!”. Infatti in un incrocio la mescolanza dei geni dei due genitori avviene in modo casuale e imprevedibile. Diversi vitigni extraeuropei posseggono geni di resistenza alle due crittogame, ma posseggono anche geni indesiderati, sfavorevoli alla qualità del vino. E i vitigni ibridi della prima generazione, selezionati per la loro resistenza sia alla fillossera che alle crittogame, furono largamente piantati in Europa nei primi decenni del novecento e fino agli anni Cinquanta: in Francia giunsero a occupare il 30% della superficie, pari a 400.00 ettari: ma furono poi abbandonati e anche vietati, a causa dei loro cattivi caratteri enologici, e in alcuni casi anche dei rischi che comportavano i vini per la salute (produzione di alcol metilico).
Per cercare di ottenere una prole che unisca i molti pregi del primo genitore (la vite europea) con i pochi pregi dell’altro (cioè i geni di resistenza della vite extraeuropea) l’unico sistema “tradizionale”, quindi che non ricorra alla manipolazione del genoma, è quello di incrociare nuovamente con il genitore europeo il primo incrocio ottenuto, e poi il secondo, il terzo e così via, sempre con il genitore europeo, scartando dalla selezione tutti i semenzali (cioè le piante ottenute dai semi) che non presentano i geni desiderati, oppure che presentano caratteri non graditi: cioè scartandoli di fatto quasi tutti (e spesso proprio tutti) e salvandone nel migliore dei casi pochissimi, anzi in genere solo uno.
Come si può immaginare i tempi di un programma di selezione del genere, che ci ha dato la seconda generazione di vitigni resistenti, sono lunghissimi: mentre la resistenza alle crittogame si può già vedere sulle viti giovani, occorre aspettare che le nuove piante portino frutto per poterle valutare sul piano enologico.
Al momento 15 anni sono considerati uno standard minimo per l’ottenimento di una nuova varietà interessante.
Un aiuto importante è però venuto dall’evoluzione della genetica: attraverso l’analisi di alcuni settori del DNA (marcatori molecolari) è possibile individuare la presenza dei geni di resistenza e di altri geni interessanti nella discendenza già nella piantina giovane. La tecnica si chiama MAS (Marker assisted selection) ed è stata resa possibile dalla mappatura del genoma della vite.

Chi seleziona le nuove varietà?

Ci sono diversi, costitutori, qui ne citiamo alcuni. In Francia: INRA, IFV; in Germania: Staatliches Weinbauinstitut Freiburg (WBI), Julius Kühn Institute (JKI); in Italia: Istituto di Genomica Applicata Udine (IGA); in Svizzera: Agroscope e Vincent Blattner (azienda privata).

Attualmente sono state, a vario titolo, registrate in Europa più di 100 varietà di uva resistenti, tra uve da vino e uve da tavola. Gli ettari coltivati in Europa erano circa 300 nel 2018 secondo una stima dell’Observatoire national du déploiement des cépages résistants (OSCAR) creato in Francia: ma il Prof. Cesare Intrieri, in una sua pubblicazione per Accademia dei Georgofili, riferisce che siamo già a quasi 500 ettari solo in Italia, nelle regioni del Nord-Est che per prime hanno autorizzato la coltivazione: Friuli-Venezia Giulia, Trentino-Alto Adige, Veneto e Lombardia. A queste si è aggiunto da poco l’Abruzzo per alcune varietà.  In Piemonte esiste un campo prova all’Istituto Umberto I di Alba (popolarmente chiamato l’Enologica) ma come prevedibile la prospettiva dell’autorizzazione fa storcere il naso alle vestali della tradizione.

Come sono i vini?

Quando in Europa si cominciarono a innestare le viti su portinnesto americano per far fronte alla fillossera (primi del novecento) molti commentatori gridarono scandalizzati che il gusto del vino non sarebbe mai più stato lo stesso, per effetto della perversa contaminazione. Come sappiamo non andò così.
La storia si ripete simile oggi per i vitigni resistenti. Simile ma non uguale, perché nel primo caso la parte superiore della pianta, cioè tutta la chioma e il frutto, appartengono sempre alla vite europea e al vitigno che abbiamo innestato, mentre qui è proprio il patrimonio genetico che non è più lo stesso, e anche il gusto non può essere perfettamente uguale al genitore europeo. Tuttavia gli sforzi dei selezionatori per conservare il più possibile questo carattere a volte hanno un certo successo, come ad esempio per le selezioni chiamate Sauvignon Ritos, Sauvignon Nepis etc., da cui derivano vini che un degustatore non molto esperto difficilmente riconoscerebbe come diversi da un Sauvignon blanc.
A questo proposito, questa possibilità di usare per gli incroci nomi di varietà europee, aggiungendo un “cognome” diverso, non piace a tutti (per quello che vale, nemmeno a me) ma la cosa è stata ormai accettata a livello normativo, almeno per alcune varietà francesi. Sull’argomento consiglio di leggere il già citato intervento del Prof. Intrieri per l’Accademia dei Georgofili (digitare su google “georgofili+nome vitigni ibridi).

Cambiare le regole è troppo rischioso?

In Italia sono registrati a livello nazionale una ventina di vitigni resistenti, ma solo in alcune regioni la coltivazione, per ora, è stata autorizzata, per vini comuni e anche per vini IGP.

Nessuna possibilità invece per i vini a DOP (DOC e DOCG). La normativa comunitaria di riferimento prevede infatti di utilizzare esclusivamente varietà di Vitis vinifera.

Ora però questo quadro normativo è messo in discussione. Alcuni paesi (Germania in primis) e molti produttori vorrebbero poter utilizzare anche in alcuni vini a DOP (DOC e DOCG) i nuovi vitigni frutto di incroci ripetuti tra Vitis vinifera e altre specie interfertili.

Naturalmente la modifica di questo quadro di riferimento non comporterebbe tout court un ingresso massiccio dei “resistenti” nei vini a DOP, ma solo, eventualmente, dopo una serie di passaggi: l’iscrizione delle varietà ai registri nazionali, l’autorizzazione alla coltivazione nella specifica regione (e fino qui in molti casi si è già arrivati), la modifica della normativa nazionale di riferimento sulle DOP (quindi di competenza di ogni singolo stato) e, soprattutto, la modifica del disciplinare di produzione di ogni singola denominazione che volesse avvalersi di questa facoltà.

L’obiettivo: meno chimica

Il tema di fondo è quello del miglioramento della sostenibilità ambientale (ma pure economica) derivante dalla riduzione di trattamenti antiparassitari. Si ricorda infatti che la viticoltura europea consuma il 60% dei fungicidi, pur occupando solo il 3% della superficie agricola, per difendere il raccolto dalle malattie. Nemmeno il metodo biologico rappresenta una soluzione, perché il rame, che è il principio attivo chiave per la difesa dalla peronospora in biologico, e non solo in biologico, non è innocuo, è un metallo pesante e si accumula nei terreni, tanto che l’Europa lo ha inserito nella lista nera dei “candidati alla sostituzione” e ne ha recentemente regolamentato e limitato l’utilizzo in modo molto severo, tanto da far tornare qualche produttore all’agricoltura convenzionale.

L’adozione di vitigni resistenti o almeno tolleranti potrebbe ridurre fortemente questo impatto. Un tema sentito è anche quello della convivenza con gli abitanti delle zone rurali e i turisti. Spesso sorgono conflitti dovuti alle irrorazioni nei pressi di case, centri abitati, piste ciclabili, sentieri (che i media provvedono ovviamente a enfatizzare); un impiego possibile dei “resistenti” potrebbe essere quello di coltivarli almeno  nelle zone cuscinetto (buffer zone) in prossimità dei luoghi sensibili.

Ma se una cauta apertura alla coltivazione per i vini comuni, a certe condizioni, è condivisa quasi da tutti, quando si entra nel campo dei vini di pregio e delle denominazioni di origine sono molte le voci contrarie: nel nome del rispetto della tradizione, della storia, dell’identità territoriale, del gusto stesso dei vini che conosciamo.

Meno resistenze si registrano per le uve da tavola, dove, in effetti, il problema dell’impatto dei trattamenti chimici sull’ambiente e sulla salute è ancora più forte: sia perché il frutto deve avere un aspetto perfetto, quindi la difesa deve spingersi a volte più a ridosso della raccolta, sia perché il frutto è consumato fresco ed eventuali residui chimici non subiscono la degradazione o la sedimentazione, con travaso e allontanamento delle fecce, che avviene invece con il vino. Il consumatore di frutta non è particolarmente affezionato alla varietà, guarda più all’aspetto, al sapore, qualche volta all’origine, ma è poco interessato alla genetica.  Infatti in frutticoltura c’è una continua selezione di nuove varietà.

Invece per il vino il panorama è molto diverso. In Italia i genetisti lavorano oggi sul Sangiovese, ma sarà difficile proporre un Brunello di Montalcino fatto con un Sangiovese “imbastardito” da una vite asiatica: e questo anche se il gusto non cambiasse affatto, cosa comunque improbabile.

Si presenta quindi un nuovo schema “tradizionalisti contro innovatori” che è trasversale all’Europa, e anche all’interno dei diversi stati. Ad esempio, parlando dell’Italia, di fronte all’idea di aprire, in futuro, le porte di una DOC a vitigni non di “pura razza europea”, è probabile la contrarietà di Piemonte, Toscana, Sicilia e altre regioni mediterranee (dove già si tratta di meno, perché il clima più asciutto è meno favorevole ai funghi), mentre una posizione più aperta potrebbe venire dal Nordest. E poi naturalmente anche tra i produttori di una stessa regione ci sono idee diverse.

Anche il mondo scientifico appare piuttosto diviso. In Italia, e forse anche in Francia, parrebbe tendenzialmente orientato, piuttosto che verso un’apertura troppo ampia agli incroci, verso tecniche più moderne di bioingegneria come la cisgenesi e il genome editing. Tecniche che, simulando processi teoricamente possibili in natura attraverso l’incrocio spontaneo o la mutazione gemmaria, potrebbero, sempre in teoria, dotare di specifiche resistenze i vitigni tradizionali senza modificare altri parametri, agendo solo su singoli geni. Quindi senza portare nelle nuove varietà nessuna “zavorra” esterna eccetto i geni di resistenza, e senza introdurre geni di specie geneticamente lontane dalla vite, come si è fatto ad esempio con il mais resistente alla piralide usando un gene batterico (OGM classico). Anzi, qui non si tratterebbe nemmeno di nuove varietà, ma piuttosto di cloni “modificati” della stessa varietà.
Tuttavia, secondo una sentenza della Corte di Giustizia Europea, i prodotti di queste tecniche (di cui potremo parlare in un prossimo articolo) sono assimilate agli OGM, con tutto ciò che ne consegue sul piano normativo: mentre questo non accade per gli incroci perché si tratta di una tecnica di miglioramento genetico tradizionale, anche se attuata con modalità moderne.

Maurizio Gily
©MERUM 2/2019, Piwis auch für DOC-Weine
Edizione italiana per Millevigne