A seguito della tragedia estiva di Refrontolo, nelle discussioni sui vari media, le teorie basate sul nulla spesso hanno preso il sopravvento sugli argomenti più seri e documentati: nondimeno il fatto che si discuta di tutela del territorio anche in relazione al ruolo della viticoltura è positivo.
In questi giorni lo si fa anche in relazione al nuovo P.I.T. della Regione Toscana, che il famoso produttore di Montalcino Stefano Cinelli Colombini ha paragonato, per la sua impostazione dirigista, ai piani quinquennali dell’Unione Sovietica. Tornando all’episodio del trevigiano, respinte le sentenze sommarie che condannavano i viticoltori del Prosecco senza conoscere i fatti, credo giunto il momento per una riflessione più serena sull’argomento.
- “Dissesto idrogeologico” è un concetto basato sul punto di vista umano. L’erosione, le frane, le inondazioni in natura avvengono, avvenivano prima della comparsa dell’uomo e continueranno dopo la sua estinzione. La terra muta continuamente il suo aspetto sotto l’azione degli elementi. L’uomo può modificare il corso di questi eventi “catastrofici”, a volte rallentandoli, altre volte accelerandoli, in alcuni casi provocandoli. Ma impedirli non è, in linea di massima, nel suo potere. Prevederli, entro certi limiti, invece sì, e dovrebbe essere fatto. Se si fosse fatto a Molinetto della Croda non ci sarebbe stata una festa popolare nell’immediata prossimità dell’alveo di un torrente già gonfio di acqua e con la previsione di nuovi temporali. E questa era, secondo me, la cosa più importante da dire, e quella meno detta, in tutta questa vicenda.
- Si discute se l’agricoltura sia un presidio del territorio, capace di frenare il dissesto (tesi sostenuta in genere dalle associazioni agricole), o, al contrario, di favorirlo, almeno quando va a sostituire la vegetazione spontanea (tesi sostenuta da alcuni ambientalisti). Possono avere ragione entrambi: tutto dipende dal contesto, dal tipo di agricoltura, e da quale sarebbe eventualmente l’alternativa (incolto? bosco coltivato? bosco naturale?) Sventrare una collina boscosa in forte pendenza per piantarci una vigna in linea di massima non rappresenta una mitigazione del rischio idrogeologico, ma un suo aumento: chi si occupa di amministrare un territorio deve tenerne dovuto conto. Nei territori dove esiste una forte pressione verso la realizzazione di nuovi impianti un piano delle superfici vitate è sicuramente utile. Lo fece anni fa il comune di Barbaresco, sindaco Giancarlo Montaldo. Qui le vigne, qui il bosco.
In Borgogna non esiste collina vitata fino al crinale: la sommità è sempre occupata dal bosco, a volte separato solo da una striscia di terra o da una strada da un “grand cru”: cioé da un terreno che vale qualche milione ad ettaro, ma che nessuno pensa di “allargare” a spese degli alberi, magari macinando le pietre come si fa in certe zone d’Italia: e, se anche ci pensasse, la legge glielo vieterebbe. Questo esempio può indurre a qualche riflessione di valenza non solo ecologica, ma anche economica. - I vincoli forestali in alcuni casi sono esagerati. Per tagliare un albero senza particolare valore che minaccia il tetto di una casa occorre sottoporsi a una trafila quasi uguale a quella necessaria per disboscare una montagna. Questo non ha senso, ma la politica non deve cadere, per populismo, nell’eccesso opposto: tagliate quello che vi pare, viva la libertà.
- I lodatori del buon tempo andato sostengono, giustamente, che la canalizzazione delle acque di scolo era estremamente accurata quando l’agricoltura era manuale e diffusa, e il bosco era “coltivato”. Quindi le acque arrivavano in modo più rapido al naturale compluvio. Quindi, nel buon tempo andato, la portata del torrente Lierza in metri cubi al secondo sarebbe stata maggiore, non minore. Una canalizzazione meno efficiente rende invece più probabili le frane, perché le acque si infiltrano invece di scorrere. E questo vale anche per settori di bosco. Il carattere improvviso della piena fa pensare a un “tappo” saltato per la spinta dell’acqua accumulatasi a monte. C’entrano i vigneti? Pare di no, ma l’inchiesta lo accerterà. Per ora sarebbe opportuno evitare giudizi superficiali, e cogliere invece l’occasione per pensare con lucidità a come migliorare il rapporto tra viticoltura e ambiente nel terzo millennio, alla luce degli errori fatti e nell’interesse di tutti, compresi i viticoltori, che dalla fragilità di un territorio possono avere solo danni.