L'Editoriale Numero: 02 / 2009

Il vino “tiene” ma i viticoltori non se ne accorgono

Millevigne 2/2009***Gli strumenti da usare si chiamano contratti e accordi interprofessionali o accordi di filiera. Dove realizzati, senza fare miracoli, hanno consentito a chi vende il vino di fare profitti e agli agricoltori un reddito dignitoso. Bisogna partire da queste esperienze, estenderle, migliorarle. Anche l’intervento pubblico dovrà ispirarsi a questo indirizzo, a maggior ragione quando arriveranno le risorse per la promozione previste dalla OCM: perché la parola valorizzazione non suoni falsa deve estendersi ai risultati economici di tutta la filiera, non solo all’ultimo anello della catena.

Gianluigi Biestro
Il vino “tiene” ma i viticoltori non se ne accorgono

Scorrendo alcuni dati pubblicati nelle scorse settimane da varie fonti (ISMEA, UIV , Coldiretti) parrebbe che il vino italiano non stia risentendo troppo della grave crisi economica che attanaglia il mondo intero. Il calo della domanda interna non c’è o è limitato; inoltre si torna a registrare un aumento di interesse sui vini a DOC a scapito di quelli da tavola, Sul fronte dell’export, dopo la straordinario picco massimo del 2007, il 2008 registra un calo contenuto, tanto da poter dire che anche all’estero il vino italiano “tiene botta”. Anche se nel nostro settore l’attendibilità dei dati è quella che è, mancando sistemi di rilevazione veramente affidabili,tuttavia, almeno a livello di tendenza, non c’è motivo per dubitare del fatto che il vino italiano si stia difendendo con combattività, a dispetto di una situazione generale molto negativa e delle feroci campagne antialcoliche che tendono a fare giustizia sommaria non dell’abuso,ma del consumo come tale. Tutto bene quindi? Niente affatto, almeno non per i vignaioli. Nello scorso dicembre pubblicammo un’inchiesta sui redditi dei viticoltori italiani   dalla quale risultava che in molti casi il reddito di chi coltiva il vigneto e vende l’uva, o la conferisce in cooperativa, oggi non arriva a pagare i costi di produzione. E’ una situazione drammatica che ha già portato alla richiesta di estirpazione a premio di molte migliaia di ettari, dal Piemonte alla Sicilia. Senza una crescita significativa del reddito agricolo si può stimare che nel prossimo quinquennio forse la metà delle aziende viticole chiuderanno i battenti. E questo raramente si tradurrà in una crescita dimensionale delle altre, perché chi resiste non avrà né capitali, né prospettive tali da spingerlo ad acquisire i vigneti e i fondi lasciati.
E’ venuto il momento che l’industria del vino italiano e le aziende imbottigliatrici di prestigio si assumano le proprie responsabilità, attuando una vera politica dei redditi e della qualità: serve un patto sociale, tale da distribuire in maniera diversa il valore aggiunto del prodotto, a costo di limitare gli investimenti e i programmi espansivi che hanno caratterizzato l’ultimo ventennio. Il peggio è che molti di questi signori non sembrano rendersi conto della gravità della situazione: per fortuna ci sono però alcune eccezioni. Tra queste l’amministratore delegato del GIV Emilio Pedron che, già lo scorso anno, commentando lo straordinario risultato dell’export 2007, mise in guardia dall’eccessiva euforia, evidenziando come la competitività del sistema del vino italiano poggiasse in parte sul fatto che si stava sottopagando la materia prima. In un medio vigneto italiano di collina si stima in circa 7000/8000 euro all’ettaro la PLV (cioè il ricavo annuale) di “sopravvivenza”: naturalmente la pura sopravvivenza non consente grandi prospettive ma, dato lo spirito di sacrificio degli agricoltori, almeno la tenuta del patrimonio viticolo nel medio periodo. Non occorre un Nobel per l’economia per capire che al di sotto di quest soglia  si rischia il cedimento delle fondamenta.
Gli strumenti da usare si chiamano contratti e accordi interprofessionali o accordi di filiera. Dove realizzati, senza fare miracoli, hanno consentito a chi vende il vino di fare profitti e agli agricoltori un reddito dignitoso. Bisogna partire da queste esperienze, estenderle, migliorarle. Anche l’intervento pubblico dovrà ispirarsi a questo indirizzo, a maggior ragione quando arriveranno le risorse per la promozione previste dalla OCM: perché la parola valorizzazione non suoni falsa deve estendersi ai risultati economici di tutta la filiera, non solo all’ultimo anello della catena.