La frase “il vino mi piace ma non ne capisco niente”, che ho sentito pronunciare troppe volte di fronte all’apertura di una bottiglia, e nei contesti di consumo più disparati, mi ha portato a compiere qualche riflessione. Ma come? Proprio il vino che dovrebbe essere sinonimo di convivialità, condivisione e spensieratezza, pone qualcuno nella posizione di doversi giustificare in anticipo e di proclamare agli astanti la propria ignoranza?
Pensandoci bene questo fenomeno è strano e anche singolare, perché capita di continuo di dover affrontare argomenti di cui si possiede poca o nulla competenza senza però avvertire la necessità di mettersi immediatamente sulla difensiva o di alzare addirittura bandiera bianca.
Per cercare di trovare spiegazione a questo atteggiamento dobbiamo pensare a come, da parte di molte persone, sia stato percepito il vino in questi anni, ovvero come un prodotto elitario ed esclusivo, difficile da comprendere senza un minimo di scolarizzazione, senza aver prima partecipato ad un qualche corso in grado di erudire sull’argomento, di conseguenza in grado di mettere soggezione a più di qualche consumatore.
È innegabile in effetti come il vino non abbia eguali tra gli altri alimenti nel rappresentare cultura, storia, tradizione e ritualità, e di come sia complesso e indefinibile – e questo è uno dei suoi aspetti più interessanti – dal momento che si presta a interpretazioni che vanno ben oltre a quella prettamente tecnica e organolettica.
Probabilmente però non sempre lo si è comunicato correttamente, soprattutto con la dovuta gioia e leggerezza, sovraccaricandolo di significati che hanno distolto l’attenzione dalla sua essenza, ovvero dal piacere e dalle emozioni che ci deve arrecare, come capita per quelle poesie irrimediabilmente compromesse dalla vivisezione dei critici e appesantite da interminabili note a piè pagina, che sicuramente tradiscono l’ispirazione di coloro che le hanno scritte.
Questo modo di comunicare è forse il principale responsabile del fatto che il vino sia divenuto, per alcuni, anche un mezzo per darsi un tono, per elevarsi dalla massa e gratificare il proprio ego (che si spegne solitamente alla prima degustazione alla cieca in cui si incappa), allontanando una parte di potenziali consumatori/appassionati.
Per un prodotto che ha saputo sopravvivere e rinnovarsi nel corso di tre millenni serve cambiare registro e adottare un approccio comunicativo nuovo, moderno, più immediato, sgravato da inutili fronzoli e soprattutto meno pomposo.
È giunto il momento di scendere dalla cattedra e di porsi al livello dei consumatori, utilizzando un linguaggio più semplice, snello e fruibile, in grado di arrivare veramente a tutti coloro che sono attratti dal vino e di aiutarli nel percorso che li porterà ad essere “appassionati”, quindi di coinvolgerli anziché spaventarli preventivamente.
Infine non dimentichiamoci che il vino deve essere anche spensieratezza e libertà per cui non guasterebbe anche una maggiore tolleranza nei confronti dei gusti di coloro che, non ancora indottrinati, apprezzano in determinati contesti anche un buon bicchiere di vino sfuso, non si vergognano di pasteggiare con un vino con un residuo zuccherino disdicevolmente alto e magari anche fuori temperatura, aprono gli spumanti facendo il botto o effettuano abbinamenti considerati poco ortodossi.