Il 2020 non potrà che essere ricordato per l’emergenza sanitaria globale, ma si era aperto con gli incendi delle foreste e delle coltivazioni dell’Australia, ripetutisi con un copione simile dopo solo pochi mesi anche in California.
L’illusione della frenata delle emissioni di gas serra nei mesi del lockdown si è presto rivelata di breve durata ed entità e la stazione di Mana Loa alle Hawai ha registrato un nuovo picco di concentrazione di CO2 in atmosfera, in un anno che si contende con il 2016 (solo quattro anni fa) il primato dei dodici mesi più caldi di sempre.
La reazione alla crisi pandemica è stata immediata, si sono mobilitate risorse per contenere il contagio e si è spinto per la ricerca di una soluzione rapida e sicura per l’intera umanità.
Una reazione che gli scienziati da decenni chiedono anche per la crisi climatica, ma che per questa tarda a realizzarsi. La differenza sta probabilmente in una diversa capacità di percepire il pericolo in un avvenimento dilagante in modo rapido come un’epidemia, che mette a rischio oggi e subito la vita delle persone e un processo lento (ma nemmeno troppo), che compromette gradualmente le condizioni di vita e il futuro delle generazioni nelle diverse aree del pianeta. Nell’efficace metafora della rana bollita, l’animaletto vive piacevolmente il tepore nella pentola che si scalda sul fuoco e non vede motivo di saltare fuori, fino a quando non è troppo tardi per farlo.
Tra le eredità del Coronavirus ci sarà probabilmente una mutata percezione di quella che è la nostra posizione all’interno degli ecosistemi e della possibilità che qualcosa possa fermarci, anche improvvisamente.
Secondo quanto emerso dalla terza indagine sul clima svolta dalla Banca per gli Investimenti Europei IBE, il 60% degli italiani è convinto che la ripresa economica debba affrontare anche gli aspetti legati alla crisi climatica e quindi forse proprio questo ci lascia il COVID: una maggiore consapevolezza della necessità di affrontare le crisi per tempo.
Quello che anni di ricerche e di attivismo non sono riusciti a fare forse potrà farlo un virus. Non si tratta di catastrofismo, la necessità di convivere con le emergenze richiede grande lucidità e consapevolezza oltre che, lo abbiamo imparato a nostre spese, un piano emergenziale competente e pronto al momento giusto.
Per i cambiamenti climatici non c’è un vaccino ma ci sono le misure di adattamento e di mitigazione che gli scienziati stanno sviluppando e validando per molti settori produttivi tra i quali anche quello vitivinicolo.
Dall’economia circolare, alle tecniche colturali ed enologiche destinate a ridurre le emissioni e i consumi di energia e acqua, molti sono i progetti in campo destinati a promuovere modelli innovativi e più sostenibili di produzione. Ma occorre più coesione, occorre che i risultati dei molti progetti si parlino e dialoghino e occorre che le soluzioni individuate comincino a essere applicate con maggiore sistematicità nelle aziende, dalle più piccole alle più grandi.
Noi cerchiamo di fare la nostra parte, divulgando quanto la ricerca, le strutture di trasferimento e di consulenza e le aziende stanno facendo per una viticoltura più efficiente e sostenibile. Ma non possiamo nascondere che ci troviamo a difendere un sistema fragile, legato a varietà e denominazioni in territori che nelle proiezioni previste per i prossimi anni, diverranno sempre meno idonei a ospitarle.
Ad essere in pericolo non è la viticoltura in sé, ma un modello di viticoltura strutturato su condizioni che fanno parte del passato. La viticoltura si potrà spostare a latitudini maggiori, come già sta avvenendo in molti paesi del Nord Europa o potrà conquistare le pendici dei monti in aree che diverranno sempre meno marginali. Ma quali strumenti abbiamo per tutelare le zone storiche della vite e del vino?
Nei prossimi anni dovremo affrontare questa e molte altre sfide per le quali avremo bisogno di una ricca cassetta degli attrezzi: trovare soluzioni per ridurre le emissioni e i consumi e limitare l’uso dei prodotti fitosanitari per tutelare la salute delle popolazioni residenti e degli operatori, oltre che i rapporti con la società civile.
Possiamo in un quadro come questo permetterci di scartare, principalmente per motivi ideologici o peggio per interessi locali, strumenti fondamentali e promettenti per una viticoltura più sicura e resiliente come quelli offerti dalla genetica delle New Breeding Technologies?
Nella foto il cane Gin nei vigneti di Cantina Marta Valpiani, Castrocaro Terme