Cosa ha rappresentato negli ultimi decenni in Italia la cosiddetta critica enologica? Diverse cose insieme: alcune notevoli, altre poco significative, altre ancora perfettamente inutili e anzi nocive.
La stessa definizione di “critico enologico” è in tutta evidenza irritante, e stabilisce un’incolmabile distanza iniziale con il lettore. “Vignaiolo” è un termine evocativo, direi anche affettuoso; “produttore” ha una connotazione più fredda, ma non fa immediatamente girare le scatole come “critico”.
Fare il critico è quindi per statuto una posizione scomoda, perché si è degli apolidi, come gli arbitri di calcio: corrotti per i giocatori, incompetenti per il pubblico sugli spalti. Vale anche a specchio, corrotti per il pubblico, incompetenti per i giocatori.
Questa antipatia costituzionale non viene depotenziata nemmeno da un comportamento virtuoso, da una solida preparazione, da valutazioni deontologicamente corrette. Figuriamoci quando il critico è di parte, o peggio impreparato, o peggio ancora prezzolato.
La figura del critico enologico ideale l’ha tratteggiata con efficacia il grande Luigi Veronelli, ormai parecchio tempo fa. Per Veronelli il buon critico è colui che per prima cosa cerca i pregi in un vino. E poi, nel caso, è costretto a registrarne i difetti. L’attitudine giusta è quindi di apertura, per così dire di solidarietà pregiudiziale verso l’oggetto della propria valutazione.
Una postura fondamentale per qualsiasi critico – letterario, musicale, cinematografico, d’arte, eccetera -, senza la quale perfino la poesia del sommo Dante può risultare incomprensibile o perfino ridicola.
Il cattivo critico, all’opposto, è invece colui che per prima cosa si dispone a cercare il pelo nell’uovo. A sciorinare un elenco di mancanze, vere o presunte, in un certo vino: questo qui ha avuto problemi di malolattica, quest’altro viene da una cattiva presa di legno, quest’altro ancora ha un alcol troppo elevato, e via andare. Credendo così di dimostrare, a se stesso e ai suoi
lettori, la sua grande competenza. “A me non la si fa”, è il sottotesto, nemmeno tanto nascosto.
Il cattivo critico è uno dei problemi maggiori della letteratura di settore, in Italia e altrove. Come ho scritto in varie altre occasioni, è un semi-saggio dannoso, parafrasando l’acuto aforisma di Goethe: “I pazzi e i saggi sono ugualmente innocui. Sono i semi-pazzi e i semi-saggi a risultare pericolosi”. E difatti Veronelli, nella sua alta conoscenza, era quasi indistinguibile da un neofita quando assaggiava un vino. Sembrava gli piacessero tutti i vini. Non doveva dimostrare la sua competenza criticando, nel senso deteriore del termine.
Se questa è l’attitudine del critico ideale, qual è la sua declinazione in salsa italiana in epoca moderna e contemporanea? A parte Veronelli, che ha continuato a dispensare saggezza fino alla sua scomparsa, nel 2004, e a qualche firma isolata, la parte più significativa del giornalismo specializzato ha operato nel settore delle guide. Qui si aprirebbe un ginepraio insidiosissimo di considerazioni potenziali, dal quale non uscirei in modo esaustivo se non dopo una ventina di volumi da mille pagine.
Tagliando con l’accetta, la posizione critica delle guide si è mossa dapprima seguendo il vento della moda dei vini iper concentrati, iper tecnici, iper appiattiti su un modello stilistico tirannico e ripetitivo, quello del rosso che doveva bordoleseggiare. Un modello importato dalla stampa americana e abbracciato con poche o nessuna riserva.
In questa fase, grosso modo tra la fine degli anni 80 e i primi anni Duemila, venivano premiati o comunque ben valutati i vini che rispondevano a precisi criteri preventivi: colori saturi, profumi primari e boisé, sapori morbidi, dai tannini inoffensivi (se rossi) e dalla debole acidità (se bianchi).
Che non si riuscisse a rintracciare alcun legame con la tradizione di un determinato territorio era un dettaglio marginale. Un Chianti, un Taurasi, perfino un Barolo, dovevano piegarsi a sembrare un Pauillac. Ricordo bene le sessioni di degustazione dell’epoca: vini classicamente poco colorati come un Grignolino, un Pelaverga, un Rossese, venivano derisi (figuriamoci un Lambrusco di Sorbara, che assommava tutte le “anti virtù”, essendo scarico nella tinta, acidulo, “vuoto” e per giunta frizzante). Parallelamente vinoni pachidermici, immobili come un tir dalle ruote sgonfie, erano portati sugli altari.
Banalizzo, certo: la realtà della critica italiana poteva essere, ed era, più complessa e sfrangiata. Ma come linea di tendenza generale stavamo lì, non ci piove. A questo periodo, definito – per me incautamente -Rinascimento del vino italiano, è succeduta una fase violentemente reattiva. Una fase partita dagli enofili più attenti e via via diffusa fino ai bevitori comuni. Una fase che la fetta maggioritaria della critica si è trovata a rincorrere, più che a precorrere.
Si è assistito così anche a teatrini imbarazzanti, in cui colleghi giovani e meno giovani hanno semplicemente cambiato di segno all’impostazione precedente: ora erano i vini dai colori profondi e dai profumi di rovere a essere penalizzati, e simmetricamente erano esaltati “vinelli” magari non soltanto scarichi nell’aspetto visivo, ma pure vuoti e acquosi nel gusto. Il risultato, in molti casi, non cambiava di molto. Se insegui una moda, anziché concentrarti sulla qualità reale di un vino, rimani sempre un passo indietro.
Altri, con maggiore serietà, si sono invece tenuti a un semplice ma decisivo precetto: giudicare caso per caso. In qualsiasi temperie storica ci si trovi, un buon vino è il risultato di un impegno serio in vigna e di una vinificazione in cui il numero di interventi rimane nei confini del “buon lavoro”, e non tracima nella “cattiva manipolazione” per eccesso di pratiche enotecniche disinvolte e talvolta furbesche. In altre parole, un Merlot affinato in barrique – oggi ritenuto dagli enosnob un reietto – può benissimo essere un ottimo rosso, se proviene da uve sane e mature ed è vinificato con misura. Simmetricamente, un vino fatto da un vignaiolo ottantenne da vecchie piante di ottavianello, può benissimo essere un vino mediocre. E viceversa, ovviamente.
A conti fatti, l’elemento più importante per un critico era ed è l’onestà della prospettiva da cui muove. Una prospettiva che può, e in una certa misura deve, cambiare con il tempo. Mi concedo una notazione presuntuosa. Tra i primi o forse per primi, molti anni fa (nel 2008), il mio collega Ernesto Gentili e io scrivemmo a questo proposito il seguente paragrafo introduttivo alla guida che all’epoca curavamo insieme:
“Infine, ma non da ultimo: se cambia il mondo della produzione, non si vede perché non debba cambiare il giornalista che rende conto di questo cambiamento. Non abbiamo difficoltà ad ammettere che il nostro metro di giudizio evolve man mano che evolve la nostra conoscenza del vigneto italiano, dei suoi prodotti, dei suoi progressi storici. Sarebbe anacronistico, oltre che ingiusto, valutare un vino italiano attuale con gli stessi criteri che usavamo cinque o dieci anni fa. È onesto ammetterlo, così come è importante sottolineare che i criteri di analisi rimangono definiti e privi di compromessi, oggi come cinque o dieci anni fa.”
Accenno appena, come dato di sconfitta epocale, all’ultimo scorcio temporale che ci riconnette con la contemporaneità. La critica in forma classica, ovvero quella di un giudizio espresso attraverso commenti, valutazioni, elementi di sintesi come punteggi o simboletti, prese di posizione più o meno nette, è in via di sparizione. Viene sostituita dal semplice accostamento di una bottiglia a una faccia (quando non a una scollatura generosa o a un paio di cosce; ma vale ovviamente anche per i maschietti che mostrano i muscoli) nei vari “social” popolati dalla figura ubiqua del cosiddetto influencer.
Alla vecchia categoria dei lettori questo smottamento epocale non sembra interessare granché. I produttori di vino a maggior ragione se ne fregano, e anzi in larga parte appaiono felici che non ci sia più qualche rompicoglioni a criticare i loro vini, che oggi vengono coperti di elogi da tutti. Eppure gli uni e soprattutto gli altri sbagliano. Al netto della retorica, la figura del giornalista “cane da guardia” – secondo la definizione anglosassone -, che funge da coscienza critica della
produzione e da stimolo per la crescita qualitativa, era uno dei cardini della democrazia vinosa. Come diceva Wilhelm Steinitz, grande scacchista austriaco dell’800, “sfortunatamente molti guardano al critico come a un nemico, anziché vederlo come una guida alla verità”.
L'Editoriale Numero: 04 / 2022
La critica enologica in Italia negli ultimi trent’anni
L’editoriale di questo numero è di Fabio Rizzari, giornalista professionista. In passato collaboratore di Luigi Veronelli Editore e redattore ed editorialista presso il Gambero Rosso Editore, ha curato libri-guida enogastronomici ed è stato titolare in qualità di esperto di vino di diverse rubriche televisive del canale tematico Gambero Rosso Channel oltre a essere relatore per l’AIS, Associazione Italiana Sommelier. Dal 2003 al 2015 è stato curatore, insieme a Ernesto Gentili, della Guida I Vini d’Italia dell’Espresso. Oggi scrive per diverse testate specializzate, italiane e straniere.
Fabio Rizzari
