L'Editoriale Numero: 01 / 2017

La dittatura dei ragionieri fa male al vino

Millevigne1/2017*** Tagliare i costi non deve diventare il mantra dell’impresa agricola.

Maurizio Gily
La dittatura dei ragionieri fa male al vino

Seguendo la mutevole domanda di mercato ci sono imprese vitivinicole che, in alcuni periodi, godono di una buona prosperità, grazie a una collocazione del prodotto relativamente facile e a prezzi remunerativi. Oggi sta accadendo al Prosecco nelle sue varie declinazioni, ci sono stati momenti felici per il Lambrusco e per l’Asti, oppure, su un altro segmento di prezzo, per alcuni “Supertuscan” (un’eccezione: normalmente sono le DOC e DOCG, che oggi va di moda disprezzare in certi ambienti enofighetti, a garantire un reddito anche ai viticoltori senza un marchio famoso). Di solito si tratta di fortune cicliche, che vanno e vengono; a questa regola sembrano per ora sfuggire solo alcune denominazioni “icona” dell’enologia italiana: Barolo, Brunello di Montalcino, Amarone (non vorrei con questo portare jella ai produttori di Prosecco). Malgrado qualche fluttuazione, nel lungo periodo questi vini registrano una continua ascesa dei prezzi, e un aumento esponenziale del valore dei terreni (nei migliori cru del Barolo si parla ormai di due milioni all’ettaro), che indica una fiducia degli investitori nel fatto che questo andamento a salire non sia destinato a interrompersi tanto presto. E parliamo spesso di investitori con radici nella finanza più che nell’agricoltura, con tutti gli interrogativi e le paure che ne derivano sul futuro del “vignaiolo”.

Nelle zone meno fortunate ci sono aziende che si ingrandiscono approfittando, al contrario, del basso valore della terra e della mancanza di continuità nelle imprese familiari, oppure che rilevano imprese di medie e grandi dimensioni in difficoltà, spesso per aver basato i loro conti e i loro investimenti su un andamento favorevole di mercato che si è interrotto senza preavviso.
In tutti questi casi nelle aziende entra con forza il concetto del “controllo di gestione” affidato a specialisti del ramo. Razionalizzatori, ottimizzatori, tagliatori di teste. La finanza non ha i tempi della vita degli alberi, ma quelli della “trimestrale di cassa”. Tagliare i costi diventa il mantra dell’impresa e l’incubo di chi ci lavora (che spesso perde così la passione che ci metteva prima), e non importa neppure se l’azienda è in perdita o in attivo, tagliare i costi va bene comunque.
Intendiamoci, il controllo di gestione in un’impresa moderna è indispensabile. Ma taglia oggi e taglia domani prima o poi ci si ritrova senza più niente da tagliare, e l’azienda all’asta.
I “ragionieri” (mi scuso con i ragionieri, qui il termine non è usato in senso proprio, ma figurato: in omaggio al dilagare dei termini stranieri potremmo chiamarli “accountant”) di agricoltura capiscono poco e spesso pretendono sacrifici da quella parte della filiera, il vigneto, che è già all’osso, proprio per il tradizionale schema del pensiero “agricolo” per cui nessun tipo di spreco è consentito.
La viticoltura italiana si è meccanizzata molto, potrà meccanizzarsi ancora. Ma, a parte il fatto che la meccanizzazione non è gratis e qualche volta nel confronto tra lavoro manuale e meccanico si sbagliano i conti, a mio avviso rimane comunque un errore allontanare troppo l’uomo dal vigneto, almeno per i vini di gamma medio-alta; il lavoro manuale e l’osservazione diretta svolgono funzioni che non possono essere facilmente surrogate, e soprattutto non c’è ragione perché lo siano. Quando si rapportano i costi della viticoltura al prezzo finale di una bottiglia di gamma medio-alta si ha l’impressione che l’affanno a tagliare costi nella parte agricola dimostri una grave sottovalutazione del valore di quel lavoro e di quei lavoratori. Ma è il lavoro dei contadini che ha creato il vigneto italiano e che lo tiene in piedi. Sono conoscenze che vanno conservate, valorizzate, tramandate. Il valore del lavoro si traduce direttamente nella qualità del prodotto, e il suo mancato riconoscimento è un boomerang per l’impresa. Naturalmente questo vale, anzi vale a maggior ragione, per quelle imprese che comprano uva e la trasformano e per gli imbottigliatori che comprano vini sfusi dai vignaioli e dalle cantine cooperative. Qui il valore del lavoro che deve essere riconosciuto è quello del viticoltore, e sappiamo che spesso questo riconoscimento non è adeguato, soprattutto per uve di collina e di alta qualità. L’ “accountant” si appella alla logica del mercato, ma questa stessa logica porta i viticoltori ad abbandonare la terra quando non riescono più a ricavarne un reddito, e sono spesso le terre migliori. Non è un bene per nessuno. A volte, senza andare fuori mercato, un piccolo sforzo sarebbe possibile, e produrrebbe più felicità e sicurezza per tutti.