Fare le DOC in Italia non fu una passeggiata e richiese grandi capacità di mediazione, unitamente a una grande saldezza di principi.
Quest’ultima di certo non faceva difetto a Paolo, che molto prima di diventare senatore della DC, da giovane ufficiale del Regno, aveva trascorso due anni prigioniero nei campi di concentramento in Polonia e Germania, salvando la pelle a stento, senza mai arrendersi ai nazisti e consegnarsi alla Repubblica Sociale. Questo era l’uomo.
Chi non voleva le DOC? Non la volevano buona parte degli industriali e degli imbottigliatori, che volevano mani libere perché, come mi disse una volta uno di loro, “il vino è materia liquida”. Non la volevano la maggior parte dei parlamentari del sud, portatori legittimi di interesse della viticoltura meridionale, che in quegli anni, inizio dei ’60, produceva enormi quantità di mosti e vini da taglio che andavano a rimpolpare di corpo e colore tanti esangui e aspri vini del Nord Italia e della Francia, e grande era il timore di perdere quote di mercato. Si beveva tanto vino, cento litri pro-capite compresi gli infanti (oggi siamo poco sopra i 35), ma di vini di qualità, come oggi la intendiamo, se ne facevano pochi, sia a Nord che a Sud, e la miscela dei due era spesso un buon compromesso. Desana e gli altri parlamentari che lavorarono al testo riuscirono pazientemente a convincere molti colleghi del Sud che alla lunga la nuova legge avrebbe giovato anche a quei territori, e che d’altronde la crescita dei vini a DOC sarebbe stata sufficientemente lenta da non fare sconquassi. Come in effetti fu.
Ogni tanto va ricordato a chi se ne scorda che la denominazione è soprattutto uno strumento per tutelare i proprietari dei vigneti, puntando su quello che non può essere “delocalizzato”: il territorio. Prima della DOC si facevano Barolo e Chianti, nomi già conosciuti, con grande disinvoltura, mescolando materie di provenienza varia senza che ci fosse una vera possibilità di impedirlo. Pochi vignaioli imbottigliavano; le stesse cantine sociali nacquero per lo più in quegli anni, e sebbene il consumo di vino fosse molto alto la tutela del reddito non c’era, tanto è vero che dalle campagne era fuga di massa verso i poli industriali.
“La 930 fu una svolta epocale”, ha detto giustamente Angelo Gaja ricordando Desana nella sua città natale, Casale Monferrato, lo scorso gennaio.
Il cammino delle denominazioni in Italia è stato punteggiato da tanti errori, perdendo spesso di vista la stella polare che i “padri” avevano ben presente: non si valorizza un vino creandogli una DOC (o una DOCG) come se fosse un abito sartoriale; si tutela con la DOC un vino che ha già un valore riconosciuto dal mercato, in quanto legato a un territorio riconosciuto come vocato, o per lo meno conosciuto, e con la DOC (o la DOCG) lo si protegge dalle imitazioni e dalle frodi. Infatti nessuno imita qualcosa che non ha valore. Invece spesso ci si è persi nei campanilismi e nei personalismi, con discutibile creatività, senza capire che la DOC serve a vendere meglio un vino, non a sventolare una bandierina che conoscono in quattro gatti: a maggior ragione in territori dove mancano aziende leader capaci, eventualmente, di farli conoscere attraverso il loro nome. Salvo poche eccezioni, e quelle eccezioni legate per lo più a denominazioni di grandi dimensioni, regionali o sovraregionali (e per questo criticate da alcuni), le denominazioni che funzionano meglio sono tra quelle create nei primi dieci anni dalla pubblicazione della legge 930. Quelle fatte dopo spesso sono rimaste al palo, molte sono raffazzonate e inutili, di alcune non esiste nemmeno una bottiglia. E vale anche per molte IGT. Nessun territorio è rimasto fuori dalle DOC (“una DOC non si nega a nessuno”), ma non a tutti ha portato i benefici attesi. Ci vorrebbe il coraggio di rivedere certe scelte del passato, ma, se è relativamente facile creare una nuova denominazione, è quasi impossibile abolirla, o modificarla, se non per aspetti marginali.
E’ compito dei produttori far crescere il valore di una denominazione. Raramente le istituzioni aiutano. Dove questo valore non c’è ancora si assiste a un disamoramento, il produttore vede costi e vincoli ma non vede i vantaggi ed è comprensibile che si possa allontanare dal sistema. I territori che non hanno ancora fatto il salto li riconosci quando i produttori evidenziano nomi di fantasia in etichetta, quasi nascondendo il territorio, pensando che il proprio “brand” abbia più appeal di un nome geografico che è condiviso tra tanti. E’ un gioco pericoloso, perché è il gioco dei grandi gruppi senza radici, che sotto il “brand” mettono quello che vogliono, prendendolo dove vogliono, in base alla moda del momento: non degli agricoltori, che ci mettono la loro vigna, perché quella hanno. Non per nulla nelle trattative sia a livello europeo che mondiale il concetto stesso di origine protetta è spesso avversato o minimizzato proprio dai paesi dove l’agroalimentare ha ben poco di artigianale e di territoriale. Nel mercato globale il piccolo produttore, senza il territorio, è un solitario smarrito nella vastità del mondo, e cancellare il territorio dall’etichetta è come dire che il proprio vino non appartiene a nessun luogo.
Un punto critico che spesso viene evidenziato negli ultimi tempi è un certo scollamento tra le commissioni di degustazione delle DOC e i gusti attuali di “tendenza”, in particolare per quanto riguarda i vini cosiddetti naturali, ma non solo. Bisogna riconoscere che alcune critiche sono sensate e alcune esclusioni poco comprensibili. Noi tecnici talvolta abbiamo un approccio alla degustazione troppo distante da quello del consumatore, troppo analitico nello scomporre il vino ed evidenziarne eventuali piccoli difetti piuttosto che valorizzarne l’impatto generale sui nostri sensi e apprezzarne la “verità” rispetto alla sua origine. La riduzione dei solfiti, le fermentazioni spontanee ed altre pratiche legate a un’enologia a basso impatto tecnologico hanno parzialmente rimodellato i parametri di valutazione dei critici e dei consumatori e di questo occorre tenere conto. Nello stesso tempo, non si può pretendere che sulla base della “autenticità” si assegni il “bollino” a vini palesemente difettosi, perché il difetto è soggettivo sì ma fino a un certo punto, le commissioni hanno il dovere di garantire al consumatore il rispetto di una qualità riconoscibile. Dove mettere i paletti, è precisamente il punto. Non è una questione solo di oggi e non è di facile soluzione, ma tra produttori, consorzi e valutatori almeno parlarne si dovrebbe, e non sempre lo si fa. Penso che una maggiore condivisione di esperienze sarebbe utile, sia a migliorare la qualità media dei vini che a incoraggiare i produttori a riconoscersi maggiormente nel loro presidio territoriale e patrimonio collettivo, che è la denominazione di origine.