In Italia abbiamo più di 600 varietà di uva da vino, in vigneti che si estendono dalle isole, le pianure, le colline, fino e oltre ai 1000 metri di altitudine negli ambienti montani. La diversità e la complessità presenti negli ambienti viticoli e nella struttura delle aziende e della società rurale sono i tratti distintivi della viticoltura del nostro Paese, quelli che la rendono al contempo unica, resiliente e fragile.
Non c’è una sola viticoltura e non c’è una sola soluzione per raggiungere gli obiettivi di sostenibilità ai quali tutti dobbiamo concorrere, e la tutela di questa diversità non può che passare attraverso la valorizzazione e il riconoscimento dei molti modelli colturali, tradizionali e innovativi, che i nostri viticoltori hanno a disposizione. Un ruolo di sostegno e di approfondimento che la politica e la scienza dovrebbero entrambe svolgere, senza perdere ognuna la sua autonomia.
Non possiamo negarlo, il modello intensivo anche in viticoltura ha manifestato tutti i suoi limiti: la fertilità del suolo è diminuita, la tenuta dei versanti anche, i fenomeni erosivi sono all’ordine del giorno e le aree marginali non hanno resistito all’impatto nella loro capacità di generare reddito e sono state abbandonate.
I piccoli produttori, quelli che presidiano queste zone di difficile coltivazione sulle nostre montagne, vivono difficoltà di tipo strutturale e di scala, ma svolgono un ruolo fondamentale che va ben oltre la capacità di generare profitto. Per loro occorrono strumenti nuovi e diversi a garanzia del reddito, dei mercati e della sostenibilità delle produzioni.
La biodiversità e la difesa del suolo sono stati i grandi assenti dell’agricoltura intensiva e oggi dalla FAO, alle Nazioni Unite, fino alla Comunità Europea, tutti chiedono che siano rimessi al centro dei sistemi agroalimentari. Occorre quindi andare a valorizzare e indagare quelle tecniche e pratiche che ruotano intorno ad essi, proprie di metodi e modelli che necessitano ad ogni livello di un giusto riconoscimento, come l’agricoltura conservativa o quella rigenerativa.
Lo scontro accesissimo dei mesi scorsi sulla Legge sul biologico ha lasciato in me una sensazione di profondo disagio e mi ha imposto una serie di riflessioni. La prima è legata alla constatazione dell’incapacità di alcuni scienziati di confrontarsi con la società civile. Stabilire un dialogo non significa imbracciare la scienza come un fucile, calando la conoscenza dall’alto come a riempire un vaso vuoto, e ricoprendo di fango coloro che non si allineano.
La nostra rivista si chiama Millevigne e poiché per vocazione perseguiamo il tentativo di mantenere una posizione laica e priva di pregiudizi, riteniamo corretto dare spazio e voce all’approfondimento tecnico e scientifico, purché naturalmente serio, utile per la crescita di anche solo una delle mille viticolture del nostro paese. Su queste pagine non trovano spazio le polemiche, le crociate, gli scambi di accuse, gli sfottò o le raccolte di firme dei pro o dei contro qualcosa, ma solo i fatti, i dati, la ricerca, la viticoltura e l’enologia. Perché come recita il Manifesto della Comunicazione non Ostile nella Scienza crediamo che “Le idee si possono discutere. Le persone si devono rispettare” e che “Gli insulti non sono argomenti”.
Non dare spazio nella ricerca e nella divulgazione agli approfondimenti provenienti da “mondi minori” come quello della biodinamica, che si sono basati fino ad oggi (come per millenni è accaduto in agricoltura) su osservazioni empiriche, rappresenta un errore. È giusto invece che gli scienziati continuino a farsi domande perché solo dopo aver fatto ricerca si potrà capire se e come alcune delle tecniche utilizzate dai produttori biodinamici possano avere un valore misurabile.
Ma se questa apertura si chiede oggi al mondo della scienza e a quello della politica, sarebbe poi giusto che tutti, anche il mondo del biologico e del biodinamico, accettassero le risposte che verranno dalla ricerca e abbandonassero i molti pregiudizi nei confronti dell’innovazione e della tecnologia. Lo faranno? Sapranno guardare a strumenti e tecnologie come ad esempio l’editing genomico, mantenendo naturalmente la libertà di non sceglierli ma abbandonando veti e giudizi verso coloro che potranno e vorranno percorrere queste strade?
La sfida della sostenibilità è una ed è per tutti, ma non potrà che essere vinta globalmente, utilizzando tutti gli strumenti adatti a ognuno dei tanti mondi che compongono il settore agricolo.
Il biologico è la via per risolvere i problemi di sostenibilità dell’agricoltura? Forse, ma sicuramente non è l’unica e probabilmente richiede una visione di respiro più globale. Però va riconosciuto che segna un cambiamento, riconosce all’agricoltura le funzioni dei servizi ecosistemici e pone dei limiti che quantomeno tentano di conciliare le esigenze della produzione con il collasso ambientale.
Forse è un ventaglio laddove servirebbe un condizionatore, ma se la legge sul biologico passerà e anche se la PAC riuscirà a individuare sistemi premianti per coloro che applicano tecniche e innovazioni sostenibili, avremo risolto un bel problema (ma poi ce ne restano mille…).