L’esperto di matematica finanziaria Nassim Nicholas Taleb sostiene che l’esistenza umana è dominata dall’imprevedibile. In quest’ottica, l’inatteso avrebbe un potere evolutivo e persino una pandemia seguirebbe la dinamica di un «cigno nero», ossia un evento estremo e improvviso, capace di travolgere tutto e cambiare la storia. In realtà, secondo Taleb, la pandemia non era del tutto imprevedibile, giacché da tempo la comunità scientifica aveva messo in guardia sul rischio di una epidemia di grandi proporzioni. D’altra parte il matematico ritiene che, prima o poi, c’era da aspettarsi anche una contrazione dei mercati. Prevedibile o no, una cosa è certa: il Covid-19 ci ha davvero travolti, costringendoci a prestargli attenzione e ha inciso pesantemente sulla nostra vita quotidiana, sul nostro modo di interagire e sull’economia globale.
Il crollo dell’Horeca
L’emergenza sanitaria ha colpito l’intera filiera vitivinicola italiana, su cui ha pesato da subito la chiusura dei ristoranti e dei locali, e addirittura aleggia la paura di dover procedere alla vendemmia verde e alla distillazione.
In particolare il black out dell’Horeca, secondo l’Osservatorio sul vino di Unione Italiana Vini, ha compromesso seriamente un giro di affari di circa 2,8 miliardi di euro.
A soffrirne di più sono soprattutto le piccole e medie imprese vitivinicole che hanno puntato su un posizionamento di prezzo più alto. D’altra parte, la pandemia ha impattato anche su tutto il settore turistico, direttamente collegato a quello enologico. Con il lockdown, si sono dovute sospendere le degustazioni, l’accoglienza e la vendita diretta in cantina.
Tengono un po’ meglio le grandi realtà e le cantine sociali (che producono oltre la metà del vino italiano) che, in alcuni casi, hanno registrato incrementi delle vendite in GDO.
L’incremento delle vendite del vino nella gdo
Secondo i dati IRI elaborati per Vinitaly, la grande distribuzione ha visto un incremento degli acquisti di vino del 7,9 in volume e del 6,9% in valore, dal 1 gennaio al 19 aprile. Pur tenendo conto del fatto che si tratta di dati che inglobano anche il periodo pre lockdown, è evidente che anche in marzo e aprile, con le festività di Pasqua, ci sia stata una crescita dei consumi di vino a casa. In particolare sono aumentate le vendite dei vini comuni, dei vini in brick (+8%) e i bag in box (+36,8%).
La crisi del sistema di export tradizionale
L’export di vino italiano stava conoscendo un trend di lenta, ma costante crescita. Nel 2019 infatti, registrava un +2,9% rispetto al 2018, per un totale di 6,36 miliardi di euro, a fronte di un totale di 476 miliardi generati nel 2019 da tutto l’export made in Italy (+2% rispetto al 2018). Indubbiamente le attività di internazionalizzazione, unite alla fitta attività di educazione e diffusione della cultura enologica italiana, perseguite negli ultimi anni, hanno contribuito a questi risultati. E’ evidente che la crisi sanitaria ha innescato una crisi finanziaria, con effetti sull’economia reale di lungo periodo, che sono ancora difficili da prevedere. C’è da dire che l’Italia è ben inserita nelle catene globali del valore, ossia la nostra produzione dipende molto da filiere di prodotti internazionali e, dunque, soffre parecchio il rischio di blocchi su scala globale. Ma, secondo le analisi dell’Osservatorio sull’Export del Politecnico di Milano, già tra fine 2019 e inizio 2020 c’erano segni di decrescita e a marzo si sarebbe registrato un calo congiunturale superiore al 10%, con picchi tra il 13 e 14%. Tutto questo in un clima di braccio di ferro tra Stati Uniti e Cina, un ruolo ancora incerto dell’Italia nella Belt and Road Initiative cinese e la spada di Damocle sospesa dei dazi di Trump sul Made in Italy. Inoltre per il mercato del vino altre due incognite erano rappresentate dalla Brexit in Regno Unito e dalla Germania, che ha chiuso il 2019 con il Pil più basso degli ultimi sei anni.
Non sapremo mai come sarebbe evoluto il calo congiunturale di marzo previsto dagli analisti, in ogni caso ci ha pensato il virus a capovolgere drasticamente la situazione e sicuramente la chiusura di ristoranti, enoteche e wine bar rappresenta un caso davvero eccezionale.
Per meglio comprendere la portata di questa realtà, è utile approfondire cosa sta succedendo nel mercato estero per eccellenza del nostro vino, ossia quello americano.
Le cantine presenti negli Stati Uniti si stanno misurando da una parte con la chiusura dei locali clienti dei propri distributori e dall’altra con la difficoltà a recuperare i crediti degli ordini pregressi. Inoltre la concorrenza delle etichette americane in questo momento è ancora più forte del solito, considerato che le normative sulla distribuzione interna sono vecchie e diversificate a livello federale e di fatto impediscono il Dtc (direct to consumer) dall’Italia, almeno senza l’intermediazione organizzata degli importatori. Alcuni di essi, infatti, stanno cercando di stringere rapporti con il retailer on line, per rivolgersi ai consumatori finali, mentre il governo ha offerto anche ai ristoratori la possibilità di vendere vino in modalità take away.
E-commerce e delivery
I tempi per una ripresa completa del settore Horeca, a livello globale, sono molto incerti e bisognerà poi fare i conti con una cruda realtà: è verosimile che non tutti i locali in Italia e all’estero riusciranno a sopravvivere contingentando gli ingressi e distanziando i tavoli.
Dunque la vendita del vino si digitalizzerà in modo esponenziale? Da questa crisi emergerà un nuovo modello di mercato enologico, che vedrà la metamorfosi, la riduzione o la fine del sistema di distribuzione così come lo conosciamo? Cosa succederà alle reti vendita che operano in Horeca?
Di fatto, qualcosa sta cambiando velocemente sul fronte della vendita on line. In generale l’export digitale negli anni scorsi ha visto un trend di crescita per diverse filiere e nel 2019 il B2B contava 134 miliardi per un totale del 28% delle esportazioni totali. Sicuramente le vendite di vino on line attraverso i canali di e-commerce e delivery hanno avuto un’impennata. Wine.com in marzo segnalava una domanda più che raddoppiata rispetto al 2019, triplicata in aprile e Majestic Wine ha registrato una crescita delle vendite soprattutto di vino italiano e francese. Il comportamento dei consumatori sembra piuttosto chiaro in merito ai consumi, sottolineando la tendenza a una spesa a bottiglia inferiore, a fronte di maggiori quantità. In questo senso i vini premium sembrerebbero penalizzati, almeno a giudicare dall’andamento delle vendite durante il lockdown.
In Italia il portale Tannico, nello stesso periodo, ha anche registrato una predilezione per etichette di prezzo medio, con un aumento del 100% sui volumi, un +10% sulla frequenza di acquisto e un +5% del numero di bottiglie per ordine. Anche l’applicazione Winelivery, che consegna prodotti beverage a domicilio nelle principali città italiane, ha sperimentato il boom delle vendite, con picchi superiori a +200% rispetto all’anno precedente.
Del resto anche tutto il settore agroalimentare e della ristorazione, naturalmente complementare a quello del vino, è stato investito da questo fenomeno. I consumi dei pasti, per forza di cose, si sono spostati nella dimensione domestica e il delivery è esploso, avvicinando a questa opzione anche consumatori nuovi ad esso. Realtà come Nutribees, Just, Uber eat Eat, Deliveroo, Glovo hanno permesso ai ristoratori intraprendenti e strutturati di continuare a lavorare in un modo diverso, favorendo la diffusione di un altro tipo di fruizione di cibo e vino, a casa propria. Parallelamente a queste realtà, inoltre, sono cresciuti anche player da cui i consumatori possono acquistare direttamente dai produttori dell’agrolimentare, come ad esempio Foodscovery e L’alveare che dice sì.
Digitalizzazione e user experience
Il boom delle vendite online, se da una parte ora non è sufficiente a colmare il vuoto commerciale creatosi con il crollo dell’Horeca, d’altra parte induce a una riflessione su come procederà la ripresa dei consumi fuori casa. E’ vero che il vino ha un’anima aggregativa e socializzante unica, ma non sappiamo esattamente che impronte di lungo periodo lascerà il virus nell’immaginario collettivo. Prevarrà la voglia di uscire, portafogli permettendo, o molti rimarranno affezionati ai pasti casalinghi?
Più precisamente, non sono tanto i numeri delle vendite di vino online durante il lockdown che si devono analizzare, quanto i comportamenti dei consumatori nei mesi successivi, la capacità di spesa e l’incidenza di un cambio di mentalità: ora, in qualche modo l’acquisto online è sdoganato, anche da parte di tanti che erano ancora restii.
Da tanti punti di vista l’emergenza sanitaria, con il suo corredo di #iorestoacasa ha indotto un’accelerazione a un’evoluzione che era nell’aria da tempo. La trasformazione digitale che ha investito tutta la nostra vita all’improvviso, con un aumento esponenziale delle connessioni, lo smart working obbligato, la home schooling, la socialità mediata dalle piattaforme di videoconferenza. C’è stato un balzo in avanti epocale nell’avvicinamento di massa a tecnologie già diffuse, ma non ancora interiorizzate.
Questo cambiamento nel consumatore medio in atto sta già producendo degli effetti sul marketing del vino, orientando probabilmente verso un’interazione commerciale sempre più blended, tra la dimensione on line e quella l’offline, che si integreranno in modo inedito e sempre più versatile.
Certamente i nostri produttori torneranno a ospitare turisti in cantina, a incontrare clienti dall’altro capo del mondo e a guidare sale gremite nell’assaggio dei propri vini, ma bisognerà vedere in che misura. Nel frattempo continueranno e aumenteranno le degustazioni con il produttore sui social e si dovrà osservare quanto crescerà l’e-commerce e che tipo di mutazioni genetiche avrà innescato nel comparto. Per esempio, se ad un certo punto i ristoranti ritorneranno alla loro piena attività, in quanto emblema della socialità, cosa succederà alle enoteche e alle drogherie?
Intanto, fino a quando non tornerà possibile offrire nuovamente esperienze dirette ai consumatori, sarà determinante la cura della user experience, che è uno dei perni attorno ai quali ruota la digitalizzazione e il web marketing. Ossia, anche nel web, il momento dell’acquisto dovrà essere un’esperienza significativa per il consumatore. Per questo motivo, per le imprese vitivinicole, non si tratta semplicemente di dotarsi di un e-commerce, brandizzato o condiviso. Si tratta invece di utilizzare la tecnologia per fare in modo che chi compra on line viva un’esperienza significativa, che lo fidelizzi in rete e non solo. L’acquisto on line deve diventare un’esperienza piacevole e stimolante, per esempio attraverso servizi collegati, come packaging particolari, merchandising o ricette. Attraverso nuove modalità di interazione, come l’utilizzo di chatbot e assistenti vocali, chi si appresta a concludere un ordine può, per esempio, ricevere consigli di abbinamento cibo-vino da parte di un sommelier.
In questo modo si accorciano le distanze tra il produttore e il consumatore finale e potrebbe succedere che le stesse categorie di B2B e B2C perderanno significato, a favore di un B2Human. In questo senso un’altra tecnologia significativa è la blockchain, che applicata al settore consente la tracciatura della filiera di produzione del vino, certificando l’intero processo. Attraverso un’etichetta intelligente posta sulla bottiglia, il consumatore può conoscere tutto del produttore, delle sue vigne, della sua storia e del suo vino. Si instaura, quindi, un collegamento diretto, che crea un rapporto di fiducia a distanza tra chi produce e chi sperimenta il vino. Tutto questo, naturalmente, è amplificato e rafforzato dall’ulteriore interazione attraverso i social, che consente alle cantine di accompagnare i clienti nel loro mondo.
La parola d’ordine è engagement, ossia il coinvolgimento emotivo e attivo del consumatore, da attivare a partire da specifiche esperienze vissute dal consumatore nell’interazione.
Nuovi modelli di business e competenze
Per alcune cantine tutto questo è già realtà, se non altro per quanto riguarda il social marketing. Ma la pandemia e i suoi effetti stanno richiedendo prepotentemente un salto evolutivo più impegnativo, che implica maggiore intensità e diffusione della sensibilità tecnologica, strutturata e integrata a livello strategico.
Ciò significa procedere a riformulare l’identità aziendale in chiave digitale, producendo mindset adeguati e nuovi modelli di business. Significa preoccuparsi della qualità delle risorse umane in azienda e delle loro attitudini e competenze tecnologiche.
Significa investire energie in questa direzione e questo, per moltissimi piccoli produttori, significa innanzitutto diventare bravi a fare rete, per trovare soluzioni comuni, per affrontare una rivoluzione che sarà positiva solo sul lungo periodo e solo per chi la saprà gestire. Significa sviluppare un’intelligenza anti-fragile, ossia un approccio di pensiero che va ben oltre la resilienza e implica la capacità di cambiare tempestivamente, attraverso la disponibilità ad apprendere e a relazionarsi in modo nuovo.