Al recente “Wine Show” di Torino il presidente di Slow Food Italia Roberto Burdese ha annunciato l’edizione di una nuova “guida”, pubblicata in coedizione con Giunti (che ha sostituito Gambero Rosso come partner di Slow Food Editore) ed ispirata ad una filosofia diversa dal passato, senza punteggi ma con più attenzione alla geografia dei luoghi e alla storia delle persone. Burdese ha spiegato che promuovere la visita delle cantine e la vendita diretta in azienda sarà un impegno dell’associazione nei prossimi anni, non essendo ragionevole che l’Italia venga in molti casi superata, nella percentuale di vini venduti sul luogo di produzione, da paesi come Australia e California. Questa linea si inquadra in una filosofia più ampia, quella che parla di filiera corta, di mangiare stagionale e locale e di “mercati della terra” che l’associazione fondata da Carlo Petrini porta avanti da anni e sulla quale trova l’alleanza delle organizzazioni agricole italiane. Indubbiamente la filiera corta favorisce le economie locali e porta maggior reddito ai produttori. Ma se i suoi vantaggi appaiono a tutti evidenti, poco si è parlato dei punti critici, che non sono banali. Che i consumatori attraverso i “farmer market” o mercati della terra, o l’acquisto in azienda, o i gruppi di acquisto solidale, risparmino è, il più delle volte, falso: non è questo lo scopo, quindi battere su questo tasto nella comunicazione può essere controproducente perché genera delusione. Alla base dell’equivoco c’è un’analisi sbagliata, che non considera in modo corretto i costi che le aziende agricole devono sostenere per poter realmente vendere i loro prodotti al dettaglio, o per trasformarli in piccole strutture, e che sono molto più alti di quelli sostenuti rispettivamente dalla grande distribuzione e dall’industria. Sommando questi costi con un prezzo all’origine che sia soddisfacente per il produttore e con i costi, ineludibili, della comunicazione al consumatore, il prezzo finale difficilmente sarà inferiore a quello di un supermercato. Le cantine che puntano sulla vendita diretta devono organizzarsi come personale e accoglienza, e promuoversi, tutto questo costa. Il mondo di internet con la sua “coda lunga” (domanda dispersa su molti contatti) apre molte porte a chi se ne sa servire, ma neanche questo è gratis, vuoi per il tempo che occorre dedicargli vuoi per le professionalità esterne che, in genere, è inevitabile utilizzare. Il ruolo di Slow Food e di altri comunicatori autorevoli è sempre stato importante per aiutare le imprese a raggiungere il consumatore finale: non ha costi diretti (parlando di giornalisti e critici seri: non della pletora di “marchettari” con il cofano pieno di derrate, specchio di cose peggiori) ma richiede comunque alle aziende un certo impegno a livello di pubbliche relazioni. Anche le Strade del Vino possono svolgere un ruolo importante, comunicando in modo collettivo quindi più economico ed efficace, ed organizzando turni di visita, quindi offrendo sempre ai turisti una scelta di cantine aperte senza impegnarle tutte insieme, come fa, ad esempio, la Strada della Franciacorta. Per chi vende un prodotto etichettato esiste poi un problema di coerenza nella politica dei prezzi: non posso vendere allo stesso prezzo all’esercente e al consumatore finale, per non creare concorrenza ai miei stessi venditori. Di nuovo, il prezzo al consumo cresce. Una soluzione possibile è creare linee diverse; oppure creare alleanze, per esempio tenersi il proprio marchio per la vendita in azienda e crearne un altro insieme ad altre cantine per la commercializzazione su scala più vasta. In ultima analisi il presunto scandalo della differenza tra prezzo all’origine e al consumo è quanto meno un’ingenuità. Questa differenza è il cuore stesso del sistema distributivo moderno: su prodotti industriali come bibite o detersivi è ancora più elevata che sui prodotti agricoli (il che consente ai produttori maggiori investimenti in pubblicità). Il modello stesso di società post-industriale, in cui il terziario prevale sul settore primario (l’agricoltura) e su quello secondario (l’industria) nella produzione del PIL si basa in buona parte su questa “differenza”. Che poi questo modello economico sia giusto, e che sia l’unico possibile, è tutto da discutere. Ma finché la gente passerà la domenica ai centri commerciali e finché tanti comuni, di ogni tendenza politica, anziché promuovere l’economia locale chiederanno ai signori del carrello di rimpinguare le loro esauste casse attraverso una cementificazione del territorio ormai fuori controllo, il modello non cambierà. Ciò non toglie che, per migliorare le cose, qualcosa si debba fare: risolvere i problemi di qualche agricoltore è sempre meglio che non risolverne nessuno.
L'Editoriale Numero: 06 / 2009
Realtà e utopia a chilometro zero
Millevigne 6/2009***
Maurizio Gily
