Piccolo è bello? Può essere, come può non essere. Probabilmente nemmeno ci interessa.
Nel senso che a dibattiti, inconcludenti, sulla strategicità delle dimensioni aziendali in vitienologia, abbiamo tutti assistito copiosamente. Piuttosto che cimentarci in ulteriori dotte analisi meglio osservare ciò che avviene nella realtà.
E nella realtà accade che in zone dove vi sono moltissime piccole aziende, la vita non è facile; sono tutte sullo stesso mercato, senza mezzi, a cercare di vendere ‘gli stessi vini’ a ‘gli stessi acquirenti’, disperatamente tentando una diversificazione che possa farli preferire al proprio vicino di casa. Differenziazione però unicamente possibile quando si dispone di un brand, di cui in genere non dispongono.
Quindi, come ben sappiamo, dove vi è un mercato fondiario vivace, alcune aziende scompaiono e altre si ingrandiscono, acquisendole. Dove il mercato latita, alcuni semplicemente smettono. Non c’è bisogno di esprimere un giudizio su questi fenomeni, semplicemente avvengono.
Ancora di salvezza è stata spesso la cooperazione, che concentra in un’unica marca la produzione di tanti viticoltori, non più costretti ad osteggiarsi. Ciò è cosa buona, ma solo dove la redditività della cantina sociale permette di restituire quotazioni delle uve interessanti. E ciò dipende massimamente dalla capacità di valorizzazione del prodotto finito, unico antidoto alla svalutazione delle uve da un lato, e dei valori fondiari dall’altro, fenomeni entrambi in espansione.
Bisogna quindi disperatamente salvaguardare la viticoltura dall’erosione di marginalità che da anni sta vivendo (purtroppo, bisogna ammetterlo, in compagnia di tante altre attività). Come? Una via potrebbe essere quella di amplificare, e codificare meglio, le differenze fra le diverse zone produttive nell’ambito della stessa denominazione, dando unicità alle produzioni e saldando, finalmente, caratteri dei vini e terroir. Zone a denominazione con una chiave di lettura dei vini maggiormente intellegibile, stili enologici più nitidi e codificati, diverrebbero strumenti identitari per i produttori più piccoli, ma anche incentivi all’insediamento di nuovi e più grandi operatori, attirati da concrete opportunità di marketing rispetto all’attuale grigiore che tutto confonde. Con un tale scenario diversi vitivinicoltori potrebbero diventare ‘solo’ fornitori di uve, ma a prezzi remunerativi (se le loro uve non sono più ‘sostituibili’) e liberando spazi di mercato.
L’operazione, in teoria, si è già tentata spesso con le zonazioni, per mille motivi rimaste nei cassetti di Consorzi ed Università, anche perché si sono trascurati sia il fattore umano (e le specificità aziendali) sia le opzioni produttive già in essere. Oggi la ricomposizione potrebbe partire invece proprio dal tessuto produttivo, rispondendo ad un immediato e condiviso bisogno di sopravvivenza. Non basterà però blindare a monte zone, sottozone, tipologie, menzioni, ma occorrerà assicurare a valle più definiti identikit dei vini, da far rispettare in sede di commissioni di degustazione. Facile? Per nulla, ma in alcune aree in questa direzione ci si sta muovendo.