L'Editoriale Numero: 03 / 2018

Rosati: l’Italia non corra per arrivare seconda

Millevigne 3/2018 *** Rosati, o rosé: la distinzione non è solo questione di lingue, si va affermando, in modo più o meno consapevole, anche come definizione di due tipologie legate all’intensità del colore: quella della tradizione italiana, soprattutto del sud, che prevede colori più accesi e brillanti, e quella della moda attuale lanciata a livello mondiale soprattutto dai vini della Provenza, e caratterizzata da colori più tenui, fino a sfumare nel quasi-bianco.

Maurizio Gily
Rosati: l’Italia non corra per arrivare seconda

La rivoluzione della Provenza è stata quella di aver puntato sui rosé come vino bandiera di un territorio che in precedenza non aveva una caratterizzazione precisa in questo senso: si facevano vini rossi, bianchi e rosati. Si fanno ancora, beninteso, ma le prime due tipologie sono diventate un completamento di gamma, mentre i rosé sono “La Provenza”. Un percorso simile in Italia lo stanno tentando le due sponde del Garda: la Valtenesi e soprattutto il Bardolino, dove la tipologia Chiaretto si sta divorando la più tradizionale versione vinificata in rosso, con numeri in forte crescita e un vino “di tendenza”, favorito in ciò dalle caratteristiche dei vitigni con cui è fatto, la Corvina su tutti.

Il boom della Provenza è stato accompagnato da un ottimo marketing territoriale, dalla vocazione del territorio al turismo estivo, e da un programma di ricerca scientifica e assistenza tecnica per il quale è stata creata una specifica governance con l’Institut du Vin Rosé con sede a Vidauban.
Il successo dei rosé provenzali, al quale altre zone francesi come la Languedoc hanno cercato di accodarsi, ha portato il consumo dei vini rosati in Francia al sorpasso sui vini bianchi, prima in volume, e successivamente anche in valore: il che indica non solo un boom dei consumi ma anche una tendenza al rialzo del prezzo medio. Anche i mercati stranieri, soprattutto quello nordamericano, sono stati contagiati dalla moda provenzale. Ma “la moda – diceva Salvador Dalì – è quella cosa che passa di moda”. Per questo inseguire i francesi sul loro terreno per l’Italia comporta dei rischi. Intanto non è il caso che ogni produttore italiano si metta a fare un rosé, anche dove non c’è né tradizione né vitigni adatti, visto che abbiamo l’una e gli altri, ma non dappertutto. Poi, se, da un lato, è normale cercare di soddisfare una richiesta di mercato offrendo vini che rispondano alla tendenza attuale, dall’altro bisogna fare attenzione a non stravolgere una tradizione che è codificata nella “sacra scrittura” della denominazione di origine controllata. Mi riferisco soprattutto ai rosati del sud, della Puglia e dell’Abruzzo. Sono vini diversi dai rosé provenzali, più corposi, rotondi e fruttati, e credo che, salvo lavorare sulle sfumature, nella sostanza tali dovrebbero rimanere. La domanda di un rosé diverso può essere facilmente soddisfatta con vini IGT o vini comuni: anche perché, almeno nella fascia di prezzo in cui solitamente si collocano questi vini, concorrenziale con i francesi, e per il target al quale si rivolgono, l’origine non è un fattore critico di acquisto particolarmente rilevante: mentre ancorare vini come Cerasuolo d’Abruzzo e Salice Salentino alla loro tradizione, anche a costo di produrne di meno a vantaggio di prodotti più “moderni”, potrebbe essere un buon investimento a lungo termine, perché la classicità resiste anche quando le mode passano.

Il successo dei rosé in Francia comporta anche l’importazione di vini sfusi, di cui l’Italia e la Spagna sono fornitori, e qualche volta avviene la magica trasformazione in vini francesi. Uno scandalo emerso di recente riguarda 70.000 ettolitri di vino spagnolo venduto con packaging ambiguo o con etichetta mendace sull’origine dei vini. I produttori della Languedoc da tempo denunciavano movimenti poco chiari: ma lo scoppio dello scandalo in piena estate, quando il consumo dei rosé è al massimo, non è quello che più auspicavano. Sono aperti procedimenti penali per frode, e gli autori rischiano due anni di reclusione e 30.000 euro di multa.

Episodi come questo dimostrano comunque che Spagna e Italia con i loro vini sfusi stanno trasferendo valore aggiunto oltre frontiera, laddove la capacità di valorizzare queste produzioni è maggiore. L’auspicio è che questo “patto per il rosato” di cui scrive Cinzia Montagna a pagina 44 di questo numero possa trasformarsi in una vera alleanza tra territori, capace di smuovere investimenti collettivi e far crescere i consumi e il valore dei rosati italiani: a partire dal mercato interno, che vede i rosati presenti nella GDO ma ancora latitanti nella ristorazione e nelle enoteche specializzate, quasi si trattasse di vini meno nobili degli altri. E non si vede perché.