Dopo aver dato nei mesi scorsi ampio spazio ai temi attinenti la viticoltura con metodo biologico ospitiamo in questo numero un articolo di Richard Smart, forse il più noto consulente di viticoltura del mondo, in difesa della viticoltura “convenzionale”. Ne approfitto per ringraziare il Dr Smart e Tina Vierra, con-direttore della rivista americana che ha pubblicato questo articolo prima di Millevigne. Con il suo stile piuttosto provocatorio (“volereste su un aereo disegnato da Rudolf Steiner?”) Smart si schiera per il primato della scienza sulla credenza: i suoi argomenti sono solidi, anche se, a nostro avviso, non inconfutabili. Penso infatti che l’articolo possa sollevare discussioni e per questo è a disposizione su internet il blog di Millevigne. La lettura ci trasmette anche, peraltro, una visione della viticoltura in cui il concetto di sostenibilità è molto sentito (tra l’altro ricordo che Smart si è occupato a fondo del tema dell’emissione di gas serra nella filiera vitivinicola e di come affrontare i cambiamenti climatici): ma tale obiettivo non contrasta, secondo il tecnico australiano, con un utilizzo ponderato della chimica di sintesi, in un contesto più ampio che prevede la lotta biologica ove possibile ed efficace e le pratiche agronomiche a difesa del suolo; in sostanza quella che noi chiamiamo viticoltura integrata e i francesi “durable” cioè durevole. In Italia intanto si parla sempre più di vino naturale, soprattutto sulla rete: più se ne parla, e meno se ne capisce. Si arriva a casi estremi in cui un vino viene apprezzato più per i suoi difetti che per i suoi pregi, perché i difetti dimostrano che il vino è “naturale e non pasticciato”: come dire che un vino è più buono proprio perché è più cattivo. Va detto che questi gusti bizzarri riguardano minoranze sparute, anche se ciarliere e dotate di grande autostima. Non esiste un protocollo che dica cosa sia un vino naturale, o meglio ne esistono molti e diversi. Ai due estremi, si può sostenere che tutti i vini sono naturali perché vengono dall’uva e sono frutto di una fermentazione ad opera di microrganismi presenti in natura (Smart: “qual è il contrario di un vigneto organico? Un vigneto inorganico?”); oppure che nessuno lo è, perché il vino è un artefatto umano inesistente in natura, e la stessa viticoltura costituisce una radicale forzatura della fisiologia di una specie che, in natura, cresce in zone umide e si arrampica sugli alberi fruttificando a grandi altezze (l’esatto opposto dell’alberello, caro a molti tecnici e non certo senza ragione) . Credo però che, in questa situazione di confusione e ambiguità, non si debba cadere nell’errore di liquidare la richiesta di maggiore “naturalità” come una moda passeggera e fondata su ignoranza e pregiudizio anti-industriale. Non è così. La verità è che la fiducia dei consumatori più esigenti verso il vino, come verso altri prodotti, è sempre più difficile da conquistare; prevale la diffidenza verso un modello produttivo che appare troppo orientato al profitto a breve termine per tutelare da una parte il consumatore e dall’altra l’ambiente, quindi scarsamente etico. Qualcuno pensa che il “contadino” sia automaticamente indenne da questa colpa “industriale” ma non è sempre così, la differenza non è tra vignaiolo e industriale, più che di categorie è questione di persone: anche se è certamente vero che una persona che mira al profitto a breve termine normalmente non sceglie di fare il viticoltore, per motivi tanto noti ai nostri lettori da non richiedere molte spiegazioni. Sul piano etico a mio avviso il problema non è se un’azienda usa il diserbo sottofila i o i lieviti selezionati: ma se certe domande un imprenditore se le è poste prima che le pongano altri, e se ad esse ha dato una risposta; se è in grado di spiegare quello che fa e perché lo fa; se nella sua mente ha individuato un percorso di miglioramento, perché la perfezione non è mai raggiunta; ed infine, soprattutto, se fa quello che dice oppure no. La serietà e la furbizia (o presunta tale) sono incompatibili, e sono discriminanti: più di quanto lo siano l’uso razionale, da una parte, e il rifiuto totale, dall’altra, della chimica e delle biotecnologie.
Con tutta la stima e la simpatia per chi opera in biologico o in biodinamico, non penso che chi fa scelte diverse sia un avvelenatore, e non penso che debba nascondersi: quando le scelte sono consapevoli non mancano gli argomenti per spiegarle: né, da parte di chi ascolta, salvo rari casi, la disponibilità a capirle. Nel rispetto delle regole e della libertà di tutti.
L'Editoriale Numero: 05 / 2011
Si chiede “naturale” si cerca verità
Millevigne 5/2011*** In Italia si parla sempre più di vino naturale, soprattutto sulla rete.
Maurizio Gily
