Carso. Una delle poche parole che associo al ricordo lontano (morì quando ero piccolo) del nonno alpino. Mio nonno combatté la prima guerra mondiale tra il Carso e il Piave, e soleva dire che quella fu la peggiore delle tre guerre che ebbe a combattere in una vita da soldato e ufficiale, anche se nella seconda, in Libia, fu gravemente ferito e nell’ultima, da generale al comando di un corpo d’armata in Etiopia, finì prigioniero degli Inglesi in India. A causa di questi ricordi infantili, e delle letture più adulte come quelle di Slataper e Ungaretti (“E’ il mio cuore il paese più straziato”) la parola Carso evoca in me, come in molte persone, un certo senso di commozione e l’immagine di un paesaggio aspro, pietroso, selvaggio: una scenografia coerente con la tragedia che nel ventesimo secolo ha più volte investito questa terra come la più devastante di tutte le bore. A dicembre sono stato a Trieste e sul Carso per una giornata che i produttori italiani e sloveni, con l’aiuto di Aurora Endrici, collaboratrice di Millevigne, hanno organizzato attraverso la frontiera, per meglio far conoscere alla stampa italiana il vino rosso bandiera del Carso, il Terrano, uno dei figli del Refosco. Un vino scuro, violaceo, un tempo rustico fino all’asprezza ma oggi, grazie alla altissima professionalità di questi produttori, vino di grande fascino e originalità, sia pure venato ancora da rocciosa austerità. Il sentimento, se non la scienza, suggerisce una spiegazione, e cioè che la roccia sul Carso abbonda assai più della terra: tanto che, per piantare un vigneto, si deve spesso (e lo si fa da secoli) cavare la terra rossa da una dolina, cioè un imbuto naturale tipico delle formazioni rocciose calcaree chiamate appunto carsiche, a fondo valle, e spianarla sopra la roccia più a monte, per potervi alloggiare le barbatelle. Il che rende i l’idea della tenacia e dell’attaccamento di questa gente alla propria patria di sassi, vento e rami contorti, tra i quali a tratti, guardando in basso, si vede l’azzurro intenso del mare. Siamo all’estremo Nord del Mediterraneo. In un’atmosfera di amicizia e convivialità il giovane presidente del Consorzio dei vini del Carso Sandi Skerk ha annunciato, in italiano e in sloveno, l’avvio dell’iter per il riconoscimento della DOC Carso TERANUM come denominazione transfrontaliera, la prima DOC europea a superare i confini degli stati. Qualunque sarà l’iter della proposta, che presumiamo difficile, il fatto che accada a Trieste carica questa dichiarazione di un forte significato simbolico: siamo al crocevia di tre culture, italiana, germanica e slava. Mi è parsa una notizia molto bella per vari motivi. Primo,
perché, sia pure in un piccolo ambito territoriale e produttivo, dà concretezza all’idea di Europa come patria, sentita da un gruppo di piccole imprese assai più che da certi nostri parlamentari europei, che rubano lo stipendio a Strasburgo mentre si occupano solo di cose italiane, talvolta solo del loro collegio elettorale; secondo, perché si contrappone alle zuffe di cortile (campanile è dire troppo) che in oltre quarant’anni, e ancora nell’ultimo anno, hanno fatto fallire molti tentavi di dare al sistema italiano di denominazioni coerenza, razionalità, comprensibilità per il consumatore; terzo, perché, pur nella sua piccola portata, è un messaggio di fratellanza: uno tra i molti con i quali il Carso contemporaneo sigilla in una bolla di vetro, a memoria e monito, gli orrori di guerra, trincea, foiba, pulizia etnica, per i quali molti ancora ne ricordano il nome, e si propone come laboratorio di un’Europa non solo pacificata ma anche unita e forte nelle idee e nelle capacità di impresa. Il Carso di oggi è una terra magnifica, pacifica e di bella gente; una terra di “culture”, al plurale, di gastronomia pregiata e di grandi vini da vitigni autoctoni: Terrano, Vitovska, Malvasia Istriana. Visitate il Carso. C’è molto da imparare.
L'Editoriale Numero: 01 / 2011
Un giorno sull’altopiano
Carso, c’è molto da imparare.
Maurizio Gily
