Febbraio 2022

Bollino nero per vino e birra?

Non si ferma l’offensiva salutista contro le bevande alcoliche.

Bollino nero per vino e birra?

di Maurizio Gily

Nutri-Score: l’etichetta  che classifica gli alimenti  in base a una supposta salubrità, basata essenzialmente sull’apporto calorico, probabilmente  ci sarà imposta dall’Europa, anche se l’Italia è sempre stata contraria.   L’uso di colori  uniti alle prime lettere dell’alfabeto in stampatello   offre una vaga sensazione che i consumatori siano trattati come alunni di prima elementare.

La mia opinione è che l’offensiva salutista, come tutte la azioni di tipo proibizionistico e censorio, non otterrà l’obiettivo   che si prefigge, quello di far mangiare meglio e in modo più sano i consumatori europei. Obiettivo di per sé giusto e condivisibile, ma da perseguire con altri mezzi, in primis l’educazione scolastica.
Nemmeno i consumatori meno informati hanno bisogno di un semaforo per sapere che il burro è grasso e l’insalata è magra, ma anche i meno informati si rendono conto che  la lettera e il colore  non hanno senso se non “contestualizzati” in una dieta:    il pecorino può essere “rosso” ma se ne grattugio  5 grammi su un piatto di pasta assumo meno calorie che mangiando due grissini (Omnia sunt  venena, sola dosis facit venenum…). Il concetto stesso che esista l’alimento “buono” e quello “cattivo” è sbagliato di per sé. Una dieta equilibrata utilizza tutte le fonti alimentari, compresi gli zuccheri e compresi i grassi, che sono fondamentali sotto diversi aspetti, come quello dell’assunzione delle vitamine liposolubili. Ovviamente  ci vuole equilibrio e tutti gli eccessi sono dannosi.
Dell’alcol invece si può fare a meno, questo è vero.  Ed è l’alcol  oggi il grande imputato. Si arriva a dire che non “esiste una dose minima”, cosa che non ha  senso sul piano scientifico (se esiste un limite massimo per l’arsenico nell’acqua  potabile, calcolato in base a una normale, o anche generosa, assunzione quotidiana di acqua, non ha senso che non esista un limite di sicurezza per un’assunzione giornaliera di alcol), ma lo  può avere se  il concetto è riferito a normali pratiche di consumo: infatti nemmeno il più parco dei bevitori assume 2 o 3 millilitri di alcol al giorno, due bicchieri di vino già ne contengono   25 o 30 e questa dose viene già considerata nociva e suscettibile di aumentare il rischio di cancro. Anche in questo caso ci sarebbe molto da discutere, non solo perché  sesso, peso, costituzione fanno grandi differenze, ma  perché le modalità di consumo sono molto diverse. L’Italia è terza in Europa per percentuale di persone che assumono quotidianamente alcol (12,8%), ma è ultima insieme a Cipro per quanto riguarda i casi di assunzione episodica di quantità generose di alcol, oltre 60 ml in una sola “sessione di bevuta” (4% della popolazione italiana).  La classifica è guidata dalla Danimarca (38%), seguita da Romania (35%), Lussemburgo (34%) e Germania (30%).  (Dati EUROSTAT.) E’ evidente che un’assunzione moderata giornaliera comporta conseguenze ben diverse per la capacità di un organismo di metabolizzare l’alcol rispetto alla “sbronza settimanale”.  La cultura del vino  è cultura del consumo consapevole, ed è quella che va spiegata e insegnata, non criminalizzata.
Invece  è pronto il marchio d’infamia: alle lettere  ABCD e ai colori dal verde al rosso si propone ora di aggiungere una lettera F in campo nero per tutte le bevande alcoliche.  Pare che l’ideatore sia un nutrizionista francese, al quale siamo comunque grati per non aver proposto un’icona più classica, quella del teschio.

Ma il rischio più grande per i milioni di viticoltori europei (contando anche  i part-time sono  effettivamente milioni, producono e portano ricchezza per tutti)  probabilmente non è nemmeno questa iconografia   terrorizzante, il cui potere dissuasorio è piuttosto dubbio (il consumo di sigarette è calato non tanto per le scritte sui pacchetti, ma per il divieto di fumare  in tutti gli spazi pubblici chiusi e sui luoghi di lavoro.)  Il rischio maggiore è che le possibilità di promuovere il prodotto, anche attraverso finanziamenti pubblici, come è sempre avvenuto finora, sia compromessa da nuove limitazioni  legate   al piano di lotta  contro il cancro dell’Unione Europea.  Nella bozza di intenti della Commissione si legge tra gli obiettivi: ridurre il consumo nocivo di alcol  in linea con gli obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite (riduzione relativa di almeno il 10% del consumo nocivo di alcol entro il 2025) e ridurre l’esposizione dei giovani alla promozione commerciale dell’alcol.

Per concludere, riporto un comunicato dell’Unione Italiana Vini, pubblicato in data odierna:

(Roma, 9 febbraio 2022). Depositati oggi gli emendamenti di modifica legati al vino nel report della Commissione Beca (Beating cancer), al voto del Parlamento europeo in sessione plenaria a Strasburgo il prossimo 15 febbraio. Le proposte di modifica riguardano in particolare la differenza tra consumo moderato e abuso di alcol quale fattore di rischio, la revisione del concetto di “no-safe level” (nessun livello sicuro di consumo) per il vino e della proposta sugli avvisi salutistici, modello sigarette. “Supportiamo – ha detto il vicepresidente Unione italiana vini e presidente dell’Associazione europea Wine in moderation, Sandro Sartor – le proposte migliorative presentate dagli eurodeputati. Il primo obiettivo è quello di evitare che il 15 febbraio diventi una data spartiacque per il futuro del vino italiano ed europeo e gli emendamenti proposti, prioritari ma decisivi, vanno in questa direzione. Senza la fondamentale distinzione tra consumo e abuso, tra diversi contesti e modelli di consumo – ha concluso Sartor – lo scenario che si delineerebbe per il settore sarebbe disastroso sul piano socio-economico”.

Secondo Uiv, senza gli emendamenti al testo il vino subirebbe nel medio-lungo termine un effetto tsunami solo in parte calcolabile. La contrazione dei consumi stimata è attorno al 25/30% ma ancora maggiore sarebbe quella del fatturato del settore, che calerebbe del 35% per un equivalente di quasi 5 miliardi di euro l’anno. Senza considerare i danni agli asset investiti – dalle cantine ai vigneti alle stesse aziende – che si svaluteranno di pari passo e i danni all’indotto. Ma il gioco a perdere si rifletterà molto anche sui consumatori, costretti a pagare di più a fronte di una minore qualità. La riduzione dei contributi porterà infatti all’aumento dei costi di produzione; al contempo però si assisterà a un appiattimento della qualità, a una riduzione del valore medio del vino alla cantina ma paradossalmente a un aumento allo scaffale, a causa delle maggiori accise. Inoltre, la difficoltà a lavorare sui brand, anche a causa dei veti alla promozione, porterà progressivamente a un proliferare di etichette prive di marchi: private label che deprimeranno la diversificazione dell’offerta data in particolare dai piccoli produttori artigianali con minori economie di scala, ma anche dalle imprese medie che fondano su qualità e politiche di branding l’attuale fortuna del vino tricolore. Complessivamente si stima una contrazione del margine lordo alla produzione del 50%, con migliaia di aziende agricole che scompariranno. Uno scenario, secondo Uiv, che si farà grigio anche in chiave turistica nelle campagne italiane (con l’enoturismo che da solo vale 2,5 miliardi l’anno); ma soprattutto lo svilimento del vino – simbolo dello stile di vita “made in Italy” e ingrediente irrinunciabile nella Dieta mediterranea – sarà un danno d’immagine incalcolabile per il Belpaese.