Stefano Labate
La sensibilità del consumatore rispetto alla composizione di cibi e bevande è crescente. E intanto il vino ha una normativa europea alle porte che imporrà una maggiore trasparenza ai produttori. Apporto calorico, impatto ambientale con pratiche di smaltimento dei contenitori e soprattutto elenco degli ingredienti. Da dicembre 2023, ogni nuova bottiglia di vino venduta in Europa renderà accessibili queste informazioni.
Vincenzo Gerbi (nella foto), professore ordinario dell’università di Torino, è un riferimento per la ricerca enologica in Piemonte. A margine di un convegno tenutosi nei giorni scorsi ad Asti, presso il polo universitario e per iniziativa di OICCE, organizzazione interprofessionale per la comunicazione delle conoscenze in enologia, è tornato sul tema degli additivi nel vino.
Professor Gerbi, perché mettiamo gli additivi nel vino?
“Il vino è una sostanza naturale che ha delle fragilità. Se devo conservare un alimento, per esempio una confettura, devo sottoporlo a “pastorizzazione” per impedire che i microrganismi lo degradino. Nel caso del vino non si fa, ne distruggeremmo il valore organolettico. Per conservare il vino nel tempo, con una operazione che si fa solo una volta all’anno, ricorriamo agli additivi. La presenza di certi additivi nel vino è storica e ha lo scopo di mantenerlo in buone condizioni, limpido e di evitare che vada incontro ad alterazioni”.
Quali sono i principali additivi che si usano per produrre vino?
“Sostanzialmente possiamo classificarli in tre grandi categorie. Ci sono gli antimicrobici, cioè quelli che impediscono la presenza di microrganismi, gli antiossidanti, che evitano il decadimento chimico per ossidazione del prodotto, e gli stabilizzanti, cioè quelli che impediscono che il vino faccia fondo, tanto per essere chiari”.
Possiamo fare a meno degli additivi nel vino?
“Alcuni additivi sono indispensabili. Se l’alternativa alla protezione dai microrganismi è la perfezione assoluta del vino, la filtrazione stabilizzante o la pastorizzazione, dobbiamo scegliere il male minore. Di altri additivi però possiamo farne a meno, per esempio degli stabilizzanti, che impediscono la precipitazione di sali di bitartrato di potassio o di colore e che hanno un effetto essenzialmente estetico.
Potremmo dire: il vino lo beviamo col fondo e rinunciamo all’additivo, evitando di guardare sempre in trasparenza il bicchiere per percepire il vino limpido e stabile anche dopo mesi e anni dalla sua produzione. Abbiamo due percorsi. Uno per migliorare la tecnologia in maniera da conferire una stabilità naturale al prodotto per far sì che non abbia bisogno di additivi. L’altro per convincere il consumatore che alcune piccole imperfezioni del prodotto non andrebbero considerate come una negligenza del produttore ma come un fatto naturale”.
Le imperfezioni estetiche che si producono rinunciando all’additivo possono essere un valore aggiunto di un vino?
“Insomma. Non dobbiamo scivolare nella banalità di quelli che, per evitare problemi, scrivono in etichetta “la presenza del fondo è un’espressione di naturalità”. Ricorda la storia della volpe e l’uva. Siccome come produttore non sono stato capace di farlo stabile allora ti dico che il vino “lo devi bere torbido“. C’è invece una via di mezzo molto virtuosa: la produzione di un vino “quasi perfetto”, utilizzando la tecnologia e il saper fare e non l’additivo. Questa è la via”.
Ci sono buone pratiche? Possiamo già oggi sostituire gli additivi con altre sostanze naturali?
“Assolutamente sì. Rispetto agli antiossidanti, che impediscono che il vino invecchi troppo velocemente, si sono fatti passi importanti nell’utilizzo di estratti dell’uva e quindi di tannini dei vinaccioli e delle bucce come antiossidanti aggiuntivi. Queste sostanze, rafforzative della componente naturale del vino, possono assicurare una autoimmunità. Possiamo sostituire una parte dei solfiti con degli antiossidanti naturali come i tannini. Una pratica che esiste già, si tratta di migliorarne l’usabilità e verificarne la sostenibilità nel tempo”.
Come consumatori stiamo diventando più attenti a quello che ingeriamo. Che tipo di impegno mostrano i produttori di vino?
“È vero, ma sappiamo che a volte come consumatori ragioniamo in maniera troppo emozionale. Normalmente i consumatori sono estremamente attenti alla presenza di sostanze chimiche negli alimenti anche se sono banali. Faccio l’esempio dei sorbati, che sono presenti in molti alimenti e vengono giudicati molto negativamente quando invece sono sostanze molto banali.
Non c’è da parte dei consumatori la stessa percezione nei confronti, ad esempio, dei farmaci. Un consumatore teme la presenza di un milligrammo per chilo di un additivo alimentare ma prende magari più farmaci al giorno, non tutti indispensabili, senza chiedersi se arrechino danno oppure no. C’è anche una mancanza di cultura. Di certo l’impegno dei produttori è di utilizzare gli additivi solo quando sono assolutamente indispensabili al mantenimento della sanità del prodotto e quindi quando il rapporto costi-benefici e rischi-benefici è a favore del beneficio”.
Un vino che riduce gli additivi è anche un vino che fa aumentare i costi di produzione. È un problema per le aziende?
“Qualunque tecnica sostitutiva dell’additivo comporta un impegno maggiore per la qualità del prodotto, cioè occorre lavorare al meglio in tutti i processi. Ovviamente se un produttore fa un capolavoro il consumatore se ne avvantaggia semplicemente perché per raggiungere quell’obiettivo il produttore ha lavorato al meglio ed ha espresso nel vino tutta la qualità dell’uva e del territorio. Questa situazione non va dunque intesa negativamente e anzi va presa come uno dei tanti stimoli al miglioramento”.
Qual è la complessità maggiore? Che cosa serve ai produttori per ridurre gli additivi nel vino?
“Serve di certo più professionalità e più competenza. Quindi anche più formazione”.