Dicembre 2020

Dragone contro canguro

Scure tariffaria della Cina sui vini australiani. Si aprono praterie per l’Italia?

Dragone contro canguro

di Maurizio Gily

La Repubblica Popolare Cinese ha fissato dazi sui vini australiani che fanno impallidire quelli di Trump ai vini francesi e ai nostri formaggi: dal 102 al 212 %.

La motivazione ufficiale è “anti-dumping”, la Cina sostiene che gli Australiani vendono sottocosto. Cosa difficile da dimostrare visto che il prezzo medio all’origine del vino importato è di 6 euro a bottiglia circa. Secondo molti osservatori si tratta invece di una ritorsione per il fatto che l’Australia ha aderito alla richiesta di un’inchiesta internazionale sulle responsabilità e le omissioni della Cina nella diffusione del contagio da coronavirus.

Fatto sta che la mazzata colpisce duramente il primo paese importatore: nell’ultimo anno l’Australia ha venduto vino ai cinesi per 866 milioni di dollari, seguito dalla Francia con 703 milioni e dal Cile con 346. L’Italia è distante, con 156 milioni, pari a un esiguo 6,4% in valore.

Il motivo di tale ritardo è da anni oggetto di ampie riflessioni e dibattiti: e mentre qui già si rifletteva e si dibatteva gli Australiani, che hanno anche il vantaggio di essere più vicini, ottenevano nel 2015 un trattato di libero scambio e bruciavano tutti, sorpassando a destra anche i Francesi, che da decenni innaffiavano quell’orto lontano con un’imponente presenza del sistema paese (nel frattempo un certo numero di firme importanti del vino francese passava in mani cinesi. E’ l’altra faccia della “valorizzazione”).

Indubbiamente l’enorme frammentazione della produzione italiana, come varietà, denominazioni e dimensioni aziendali, è un freno per la penetrazione in quel mercato. Ma non è che in Italia esistano solo i nani, in effetti il primo importatore è un gigante come CEVICO: ne abbiamo altri, abbiamo grandi imbottigliatori e un forte sistema cooperativo che ha anche imparato a cooperare non solo al suo interno ma anche tra strutture diverse. Se aumentano la conoscenza e l’interesse verso l’Italia poi aumenta anche la ricerca dell’alta gamma   dei vini meno comuni, purché graditi a quei consumatori, o meglio ai loro potenti “influencer”. E già oggi  ci sono alcuni “vignaioli indipendenti” italiani che si sono fatti strada in Cina, anche se  i numeri sono troppo piccoli per muovere le statistiche.

Premesso che non è elegante compiacersi dei dispiaceri altrui, c’è la possibilità che la disgrazia degli “Aussie” possa diventare una fortuna per l’Italia?

L’Australia, che è stata colpita non solo nel vino ma anche nei cereali e nelle carni, ha avviato ricorsi in sede WTO e non si sa come la faccenda andrà a finire: sarebbe però il caso di non perdere tempo.