Marzo 2022

Gastronazionalismo

un libro di Michele Antonio Fino e Anna Claudia Cecconi

Gastronazionalismo

di Maurizio Gily

“Unità nella diversità” è una sorta di mantra ripetuto in molte occasioni, quando si richiamano i principi a fondamento dell’Unione Europea. L’impianto normativo europeo delle denominazioni di origine geografica rappresenta un tentativo di applicare questo concetto, in sé potenzialmente contraddittorio, al settore del cibo e delle bevande. La diversità è implicita, ogni territorio è diverso dagli altri e ha una sua identità (parola pericolosa, come si racconta a più riprese in questo libro) mentre l’unità dovrebbe risultare dal reciproco riconoscimento delle diversità e dalla rinuncia a “copiare” i vini e i cibi altrui, almeno a livello nominale. Nella realtà questo tentativo non sempre è coronato da successo, anche perché non di rado prende le mosse da premesse errate.
Cos’è il “gastronazionalismo”? Il concetto è ampiamente trattato in questo libro di Michele Fino e Anna Claudia Cecconi, insieme a quelli di identità, diversità, unicità, tipicità, con una ricca disamina filosofica, sociologica, antropologica. Ma sono gli esempi a illuminarlo meglio. La battaglia di una parte politica in Francia contro l’hamburger halal (cioè da animali macellati secondo i precetti islamici) è tra i più significativi. Si denuncia l’estraneità alla tradizione e alla cultura gastronomica francese: ma cosa ha a che fare l’hamburger low-cost da banco o da “food truck”, declinato  in una pluralità di esercizi in franchising,  con quella tradizione e quella cultura? Praticamente nulla, e questo indipendentemente che sia halal o no. Così il tortellino senza maiale offerto dalla Curia per la festa del Santo Petronio fece scandalo a Bologna: cedimento al multiculturalismo e alla sostituzione etnica (salvo poi scovare nei testi la piena legittimazione storica della carne di pollo in quel ripieno). Quando alla geografia dell’origine si associa in modo disinvolto la modalità di preparazione di un cibo si perde di vista il fatto che la gastronomia è in continua evoluzione, a seguito dell’ingresso di nuovi prodotti (basta pensare al pomodoro e alla patata nella cucina italiana) e anche di nuovi gruppi etnici. Il politico del “viva la polenta e abbasso il cuscus” oltre a ignorare che il cuscus è cibo tradizionale in molte comunità ebraiche sparse per l’Italia, e in tutta la Sicilia occidentale da dodici secoli, considera la gastronomia come un reperto da chiudere in un museo, anziché come una disciplina in continuo divenire. Non solo: il “prodotto tipico” diventa elemento di orgoglio “suprematista”, espressione di una cultura superiore, e il cibo, da elemento di condivisione, diventa il suo contrario.
Nel testo si tratta poi dei molti errori che si continuano a commettere quando la volontà di proteggere un prodotto con una denominazione di origine si ispira più all’idea (spesso perseguita da amministratori locali più che da produttori)  di “piantare una bandierina” che non al significato economico-commerciale e di tutela dalle imitazioni che è la ragione di essere di una protezione geografica.  Fioriscono così denominazioni invisibili perché prive di consistenza numerica, inutili perché nessuno pensa di imitarle, spesso strampalate e prive di una vera base storica (molte “de.co.” svettano in tal senso) e talvolta persino controproducenti per la qualità del prodotto stesso: ad esempio una DOP di un formaggio tradizionale d’alpeggio, prodotto in quantità modeste, per arrivare a produrre volumi che possano puntare al mercato nazionale ed estero (perché se il mercato è locale non si vede perché fare una DOP) finisce per stravolgere il suo disciplinare e la sua natura: accettando latte vaccino invece che ovino o caprino, da stalle di pianura anziché da alpeggio e così via. Il risultato è che i produttori davvero tradizionali e di qualità escono dalla denominazione e dal consorzio, e la DOP finisce per essere una patacca su  un quasi-falso. Oppure ci si dà la zappa sui piedi con disciplinari autolesionistici: esemplare il caso della prelibata focaccia di Recco. Pochi mesi dopo aver  ottenuta la IGP, i bravi Liguri sfornano la focaccia alla EXPO 2015 di Milano e finiscono denunciati per frode in commercio: sì, perché il disciplinare dice che la focaccia di Recco si può fare solo in quattro comuni del Levante ligure, quindi non a Milano (o a Rho, sede dell’EXPO). Così la focaccia di Recco fuori da Recco diventa una anonima “focaccia al formaggio”.

Michele Antonio Fino è professore di Diritto romano e Diritti dell’antichità all’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo.  Anna Claudia Cecconi è business developer di Too good to go, una app per combattere gli sprechi di cibo.

 

Editore PEOPLE srl
ISSBN  979-12-80105-77-6
prezzo di copertina 18 €