Elisabetta Tosi
I Romani ne sarebbero fieri: il vino come lo facevano loro continua ad essere bevuto, esportato e apprezzato pur dopo duemila anni. Risale infatti ai tempi della colonizzazione romana la tradizione portoghese del vino da talha, il “vino d’argilla”, e oggi, complice il trend dei vini naturali variamente intesi e realizzati, questa particolare tipologia di vino sta conoscendo una nuova stagione d’interesse. Secondo la tradizione locale, la culla del vinho da talha è l’Alentejo, la regione-granaio del Portogallo, grande come il Belgio ma scarsamente abituata; appena 1 milione e mezzo di abitanti.

Qui, in particolare a Vila de Frades, una freguesia (località) del distretto della cittadina di Beja, si trova l’antica cantina (risalente al XVIII sec.) di Geracoes da Talha, che da generazioni porta avanti il modo romano di vinificare e fermentare le uve in contenitori di terracotta. In questa azienda a conduzione famigliare l’antico procedimento è pienamente rispettato, ma nella vasta regione alentejana non mancano le varianti sul tema della vinificazione in talha. Negli anni infatti l’interesse crescente dei consumatori ha indotto molte moderne aziende – cooperative incluse – ad approfondire questa tipologia di prodotto, e a introdurre nuove tecniche e attrezzature per facilitare il lavoro, sempre però nel rispetto della tradizione.
In se’, il procedimento per ottenere questo vino è semplice. Tutto comincia con la vendemmia di uve coltivate “al naturale”, in genere di vigneti centenari o quasi, con basse rese per ettaro: raccolte a mano, quando non vengono diraspate con le diraspatrici elettriche sono sgranellate manualmente con un movimento ondulatorio sopra un tavolo in ardesia (mesa de ripanço). I puristi però preferiscono fare alla maniera dei Romani: le uve vengono scaricate dalle finestre della cantina direttamente sul pavimento, e poi pigiate con i piedi (un’usanza, quest’ultima, che in Portogallo non viene mantenuta solo per scopi turistici, ma ha ancora una funzione produttiva anche nelle aziende più strutturate). In questo caso, il pavimento della cantina è costruito in lastre di pietra leggermente inclinate verso il centro, per consentire al mosto di defluire in una cisterna (o in una talha) interrata, chiamata ladrão (ladro). La scelta di far fermentare l’uva in talhas interrate risponde ancora oggi ad uno scopo precauzionale: se per caso l’anidride carbonica sviluppata dalla fermentazione alcolica, premendo sulle pareti del contenitore, le fa esplodere, il mosto non va perduto. Interrato o fuori terra, comunque, il vinho fermenta con i suoi lieviti indigeni in questi recipienti in argilla, che nell’Alentejo si presentano di forme e dimensioni diverse. La cantina Geracoes da Talha ne conta almeno una cinquantina. Durante la fermentazione, le parti solide dell’uva come polpa, bucce, vinaccioli, vengono spinte in alto dall’anidride carbonica, e salendo in superficie si compattano, formando il famoso cappello. In un normale fermentino in acciaio ad un certo punto si metterebbe in moto l’apposito attrezzo per la follatura, ma qui si fa a mano anche quella. Il cappello viene rotto con una specie di stantuffo in legno, e spinto di nuovo nel mosto. Questa operazione viene ripetuta per tutta la durata della fermentazione almeno due volte al giorno (notte compresa). Dopo 8-15 giorni, la fermentazione si arresta da sé: la prima parte è conclusa, e la massa solida si deposita sul fondo della talha. Quest’ultima è sempre dotata di un foro, posto a circa 30 cm dal fondo, che è chiuso con un tappo (batoque).
Quando arriva la festa di S. Martino, l’11 novembre, è il momento di svinare: il batoque viene rimosso e sostituito con una specie di beccuccio da cui esce il vino, più o meno filtrato naturalmente (cioè per gravità e per la presenza della massa solida). A questo punto iI vinho è pronto: nelle osterie alentejane più tipiche viene spillato direttamente da una talha in un tipico bicchiere che va riempito quasi fino all’orlo. E’ il vino della buona compagnia, da bere (e non semplicemente da assaggiare) accompagnandolo con il cibo tipico: formaggi, fette di porco preto (il maiale nero, noto in Spagna come Pata Negra) e petisco, il robusto pane della regione. Che sia rosso, bianco o palhete (rosato, fatto con uve bianche e rosse insieme), il vinho da talha si fa così. Al gusto si presenta molto rustico, con uno profilo organolettico spiccatamente terroso, ma non privo di profumi anche fruttati, soprattutto nella versione rossa. Un vino sicuramente non facile, e non per tutti, ma dalla cui storia millenaria c’è ancora da imparare.
Crediti fotografici: Elisabetta Tosi.