di Alessandra Biondi Bartolini
La storia, la scienza e le prospettive del vino in anfora: il convegno di apertura della quarta edizione della manifestazione “La terracotta e il vino”, che ha riunito cultori e produttori del vino in anfora alla Certosa di Firenze il 4 e 5 giugno scorsi, si è articolato in due parti con una doppia veste storica e scientifica. In una prima parte di taglio storico si sono succeduti Ivano Asperti, autore del libro “Vitigni, vini rari e antichi” e il giornalista americano Paul White, che ha presentato la riscoperta dell’antica tradizione dei talha portoghesi. L’approfondimento scientifico è stato affidato a Valentina Canuti, Monica Picchi e Francesco Maioli del Dipartimento di Scienze e Tecnologie Agrarie dell’Università di Firenze, che hanno presentato i risultati di un recente progetto, nel quale l’affinamento del vino in contenitori di diverso materiale (legno, acciaio, cemento e terracotta) è stato monitorato secondo un solido disegno sperimentale, analizzando le differenze di tipo chimico, fisico e organolettico.
Un doppio approccio necessario per garantire l’accuratezza nella narrazione di questi vini, avvolti talvolta da molta leggenda, ma la cui storia e tradizione si è trasmessa in modo ininterrotto addirittura per millenni solo in poche regioni del bacino Mediterraneo, come in Georgia naturalmente o in alcuni villaggi dell’Alentejo in Portogallo. Occorre andare oltre a quella che si potrebbero definire “archeologia sperimentale” dei primi pionieri che pochi decenni fa reintrodussero la vinificazione in anfora per ricostruire i vini degli Etruschi o dei Greci. Oggi in molte regioni italiane si produce vino in vasi vinari di terracotta o più in generale in materiale ceramico e l’approccio sia all’idoneità del materiale, sia all’uso in vinificazione e alla gestione in cantina, non può prescindere dalle conoscenze tecniche ed enologiche e dall’approfondimento scientifico. Per quanto il legame con la storia sia molto affascinante, e per quanto l’anfora sia stata il primo contenitore nel quale si è prodotto vino, per il mondo enologico moderno dopo che sono stati abbandonati da secoli, l’anfora e i vini in anfora sono in realtà qualcosa di nuovo per cui si sperimenta e si accumula esperienza.
Nella stessa Toscana, come ha spiegato a Millevigne nella video-intervista Francesco Bartoletti (clicca sull’immagine per aprire il video), enologo, organizzatore dell’evento e consulente per la fornace Artenova, l’uso del “cotto dell’Impruneta”, famoso nel mondo per le terracotte artistiche e da secoli molto utilizzato anche nella conservazione degli alimenti per gli orci dell’olio di oliva, è stato sperimentato nell’uso per la vinificazione solo negli ultimi anni.
Qvevri georgiani e Talha portoghesi, millenni di tradizione ininterrotta
Come riportato anche in una recente review sulla nascita e l’espansione della vitivinicoltura nel bacino del Mediterraneo pubblicata sulla rivista Heritage (Harutyunyan M. e Malfeito-Ferreira M., 2022) le prime anfore utilizzate presumibilmente nella produzione o il trasporto di vino risalgono a circa 8000 anni fa, mentre la prima antica “cantina”, intesa come vero e proprio stabilimento dedicato alla produzione, sarebbe quella dello scavo archeologico di Areni I in Armenia e risale al periodo compreso tra il 4000 – 3400 a.C. Successivamente alla domesticazione della vite, e la nascita del vino nella regione Caucasica, la diffusione di viti, vini e anfore in tutto il bacino del Mediterraneo si deve ai Fenici e solo successivamente ai Greci e ai Romani.
Le tradizioni più antiche sono quindi sicuramente quelle di produzione del vino in anfora di alcune cantine armene, come quella di Zhora wine dove alcuni vasi hanno più di 200 anni, e naturalmente dei qvevri georgiani, della capacità di 1000 o 1800 litri, tradizionalmente trattati con cera d’api appena usciti dalla fornace e successivamente interrati per mantenere il giusto controllo termico nel corso della lunga vinificazione con macerazione.
In Portogallo i primi insediamenti che testimoniano una produzione di vino in anfora risalgono a circa il 900 aC, ma la tradizione della produzione del vino nelle anfore chiamate Talha tipiche della regione dell’Alentejo è legata a quattro villaggi, che circondano il sito archeologico della villa romana di Sao Cucufate, risalente ai primi anni del primo secolo dell’era cristiana.
Una tradizione ha raccontato Paul White che, conservata per 2000 anni grazie ai monaci prima e a pochi agricoltori poi che continuavano a produrre il vino di talha per consumo familiare e per le piccole mescite locali, consisteva di soli 700 litri imbottigliati nel 2007, quando sedici soci della cooperativa di Vidigueira si unirono per salvare dalla scomparsa questa produzione. Oggi il vino di Talha è una DOC tutelata da un disciplinare che definisce le varietà autoctone utilizzabili, le caratteristiche del contenitore e i tempi di vinificazione e macerazione (generalmente almeno fino all’11 novembre, il giorno di San Martino), con una produzione certificata nel 2020 di 80.000 bottiglie.
Il Sangiovese in terracotta, acciaio, legno o cemento
L’interesse per la vinificazione in anfore di terracotta e la riscoperta delle proprietà delle vasche in cemento sta interessando negli ultimi anni anche molti produttori toscani. Per questo motivo e per analizzare gli effetti e l’influenza dei diversi materiali nella maturazione del Sangiovese a partire dal 2018, le ricercatrici e i ricercatori dell’Università di Firenze hanno realizzato un progetto presso la Cantina Cooperativa Colli Fiorentini Valvirgilio di Montespertoli. Nel piano sperimentale sono stati comparati contenitori dello stesso volume di 5 hl di diversi materiali: cemento non rivestito, cemento vetrificato, terracotta, acciaio, legno nuovo e legno usato. Le valutazioni fatte a diversi intervalli di tempo nel corso della sperimentazione consistevano nella misura del profilo polifenolico, i composti volatili e i metalli, oltre che naturalmente nella valutazione dei parametri sensoriali di evoluzione dei vini dopo periodi diversi di conservazione. L’evoluzione del potenziale redox e la permeabilità alll’ossigeno disciolto sono stati analizzati in collaborazione con l’Università di Valladolid che si è particolarmente specializzata negli ultimi anni nello studio dei trasferimenti gassosi attraverso materiali porosi di diversa natura nel vino.
In sintesi analizzando i risultati del progetto, già oggetto di pubblicazioni scientifiche, ha spiegato Valentina Canuti, si è potuto evidenziare come la terracotta, il cemento non rivestito e la barrique nuova portino a risultati simili in relazione alla capacità di stabilizzazione del colore, mentre la riduzione di acidità riportata nei primi due materiali sarebbe riconducibile a una maggiore presenza di metalli in grado di legarsi agli acidi organici del vino. Dal punto di vista organolettico la maturazione in bottiglia in ambiente riducente permette di differenziare l’azione dei materiali sulla componente volatile a seguito di un diverso grado di idrolisi dei precursori varietali. La terracotta e il cemento non rivestito, che permettono entrambi un passaggio graduale e limitato di ossigeno, sembrano pertanto rappresentare uno strumento adatto all’affinamento dei vini rossi, qualora l’obiettivo sia la stabilizzazione del colore e la valorizzazione delle caratteristiche aromatiche del vitigno.
I vini sperimentali sono stati proposti in degustazione al termine del convegno per permettere al pubblico di verificare le differenze ottenute con i diversi contenitori in condizioni controllate..