Maurizio Gily
foto in apertura: pergola a Settimo VIttone
Ho partecipato nel giugno scorso, a Ivrea e dintorni, a un evento molto ben organizzato dall’associazione dei giovani produttori del Canavese presieduta dal giovane enologo e produttore Vittorio Garda. Ho avuto così il privilegio di constatare i notevoli progressi dell’enologia in quella parte del Piemonte e di avere conferma del fatto che l’Erbaluce è un bellissimo vitigno, capace di dare vini dal respiro molto lungo, anche se di questo ero già convinto.
Ho inoltre visitato, con l’occasione, una piccola azienda di vini “eroici”, Figliej a Settimo Vittone, Il paese che confina con il più noto paese di Carema, territorio quasi identico e identica viticoltura, letteralmente aggrappata alla roccia. Qui non si parla di Erbaluce ma di Nebbiolo, localmente chiamato Picotendro.
Parlando con le persone, e sentendole parlare, ho avuto l’impressione di un territorio di grande vocazione che ha perso alcune occasioni, e che purtroppo continua a perderle, a causa dell’ostinazione di una parte dei produttori che non hanno raggiunto la consapevolezza della necessità di “fare rete” in un mondo in cui il vino non vive più di mercati di prossimità, e nel quale un piccolo territorio (parliamo di meno del 10% del vino piemontese) deve navigare come una barchetta circondata da corazzate, e per trovare il suo spazio ha bisogno, in partenza, di un equipaggio solidale.
Sono opinioni personali quelle che qui propongo, e può essere benissimo che siano sbagliate. Una discussione è auspicabile, e sarebbe opportuno che non restasse entro i confini ristretti nella quale finora si è svolta perché parliamo di patrimoni collettivi.
Caso Erbaluce
L’Erbaluce di Caluso oggi si chiama Caluso Erbaluce, e Caluso passito. Giustamente si mette in primo piano il nome del territorio, e sebbene si produca in diversi comuni Caluso è il polo da cui tutto è partito, almeno a livello di regolamentazione. I territori non sono esportabili, i vitigni sì, e l’Erbaluce è coltivato anche altrove, sulle colline del novarese in particolare, dove è conosciuto tradizionalmente con il nome di Greco e dove da sempre produce ottimi vini bianchi. Ora questi vini si trovano nella situazione paradossale di non avere un nome spendibile per questo vitigno: Greco non è ammissibile in quanto nome geografico e assonante con altri vitigni iscritti al registro nazionale, Erbaluce non si può usare perché una norma voluta dal Consorzio dei vini del Canavese e accolta dalla Regione Piemonte riserva questo nome alla DOC Caluso. Una posizione antistorica e non coerente con i principi che ispirano a livello europeo la normativa sui nomi delle varietà vegetali, le quali, in quanto tali, non possono essere “brevettate” da nessuno. Esistono altre deroghe ed eccezioni a questa regola, ma sono tutte ai confini della legge, e non si sa fino a quando potranno essere mantenute. Se si crede nel valore di un territorio, questo sì unico e inimitabile, arroccarsi sul nome di vitigno non è intelligente. Ma soprattutto, al di là delle leggi, da un punto di vista pratico e commerciale che danno può fare un Erbaluce dell’Alto Piemonte ai canavesani? Nessuno, anzi aiuterebbe a diffondere la conoscenza del nome, visto che sarebbe prodotto e commercializzato da alcune firme di grande prestigio. Per ora nulla da fare. Si spera nei giovani.
Caso Alto Piemonte
Nelle province del Nord si coltiva il Nebbiolo da prima che nelle Langhe e nel Roero. Il Nebbiolo, in purezza o in assemblaggio con minori percentuali di altri vitigni, dà origine alle più prestigiose denominazioni del Nord Piemonte: Gattinara, Ghemme, Boca, Lessona, Bramaterra, Sizzano, Carema. Manca una DOC “di ricaduta” (pessima definizione per i vini base della piramide DOC) che abbia un sufficiente potere evocativo, qualcosa di paragonabile a Langhe Nebbiolo. Le denominazioni “Coste della Sesia” e “Colline novaresi” tale potere non ce l’hanno. Il blocco cuneese ha impedito con il suo peso politico la possibile soluzione di una DOC Piemonte Nebbiolo, con ragioni discutibili, ma già discusse a suo tempo, per cui ora è inutile ritornarci.
Una tardiva soluzione potrebbe essere quella di una DOC Alto Piemonte. Se ne parla da anni ma senza costrutto. E’ possibile che ci siano resistenze al sud, ma soprattutto non c’è accordo al Nord. Chi avrebbe diritto ad Alto Piemonte, solo novaresi e vercellesi, o anche canavesani? E le valli alpine a ovest (Susa, Chisone)? Boh. Nel dubbio, non se ne fa nulla.
Tra l’altro una DOC Alto Piemonte comporterebbe probabilmente anche il superamento automatico del “caso Erbaluce”: un Alto Piemonte bianco a base Erbaluce si sgancerebbe da ogni questione legata al nome di vitigno e relativi elementi di (supposta) concorrenza.
Caso Carema
Carema è un gioiello, ma troppo piccolo. Dopo anni di progressivo abbandono, si è vista ultimamente una fragile ripresa, con giovani produttori di buona volontà a coltivare fazzoletti di terra qua e là: parliamo di circa 25 ettari in tutto, per un vino che sul mercato, per i costi di produzione che ha e la fatica che comporta per chi coltiva quelle vigne strappate alla roccia non dovrebbe costare meno di 25-30 euro alla bottiglia. E che, per questo motivo, avrebbe bisogno di una spinta sui mercati ricchi d’Italia e del mondo. Ma chi la può dare questa spinta, con 25 ettari divisi tra decine di proprietari?
La foto di apertura non è fatta a Carema, ma a Settimo Vittone, il paese confinante. Qualche decina di ettari di vigneti del tutto simili a quelli di Carema (e a quelli di Donnaz, in Val d’Aosta: Carema fa confine), altri simili ve ne sono a Borgofranco d’Ivrea, a Nomaglio, a Montalto Dora. Diciamo che in tutto con questi terrazzamenti si arriverebbe forse intorno ai 100 ettari. Ma davvero fa così paura allargare la DOC Carema, riservandola solo a questi pochi balconi di pietra strappati alla roccia, e solo quelli coltivati a Nebbiolo, con pochissime possibilità di espandersi? Intendiamoci, di norma l’opposizione agli allargamenti di una DOP ha senso, per tutelare chi l’ha voluta, anche a scapito di chi a suo tempo ha perso il treno, e questo è comprensibile. Di certo più comprensibile che il caso Erbaluce. Ma qui c’è un problema diverso, quello della massa critica: quello di un vino straordinario ma quasi invisibile al mondo, perché prodotto in quantità troppo piccola. Ci sono produttori bravissimi, volenterosi, capaci, animati da grandissima passione. Ed è logico, se no chi glielo farebbe fare di andare a coltivare le vigne a mano, scalando gradini di pietra, rischiando pure l’osso del collo? Per fare il salto di qualità forse bisogna mettere in discussione le “tavole della legge”, anche se costa molto sul piano psicologico. Diversamente è probabile che questi produttori trovino la scappatoia di un marchio privato collettivo. Già se ne parla. E se un domani questo vino “a marchio” valesse più del Carema? Con questi numeri e questi produttori non è un’ipotesi fantascientifica. E a quel punto sarebbe tardi per rincorrere i buoi scappati dalla stalla.