Dicembre 2022

In Valpolicella stelle per creare valore sul territorio

Fuori o dentro le denominazioni: una tavola rotonda per riflettere sul ruolo delle DO e dei disciplinari

In Valpolicella stelle per creare valore sul territorio

di Alessandra Biondi Bartolini

Le occasioni di confronto e di dialogo sulla filosofia produttiva e sulla direzione che denominazioni, gruppi o brand potranno intraprendere per valorizzare vini e territori, non dovrebbero mai mancare. A creare un dibattito interessante, in grado di aprire nuove discussioni e sollevare questioni e interrogativi, è stato il 14 dicembre scorso Davide Gaeta, docente di Economia dell’Università di Verona e amministratore, insieme all’enologa Raffaella Veroli, di Eleva, l’azienda nata dall’idea di Bruna Maculan e acquisita da Gaeta e Veroli nel dare luogo al suo lascito testamentario. L’occasione è stata la presentazione di Cercastelle, vino IGT nato dall’inedita combinazione del Merlot e dell’Oseleta, il più internazionale dei vitigni e la più difficile delle uve veronesi, coltivati con altre varietà locali e internazionali, sui 18 gradoni disposti intorno alla cantina di Sant’Ambrogio di Valpolicella.

Si è trattato di una tavola rotonda informale che ha visto confrontarsi oltre a Gaeta anche Marco Sartori, titolare dell’azienda Roccolo Grassi, realtà al tempo stesso classica ed emergente della Valpolicella, Mattia Vezzola, enologo pluripremiato di fama internazionale e protagonista oggi della rinascita del Valtenesi DOC con la sua azienda Costaripa e Maurizio Ugliano, docente di enologia presso l’Ateneo veronese.

All’interno di ogni azienda esiste una filosofia della qualità che spesso si esprime nella ricerca della sua stella, il vino che più la rappresenta. La scelta si confronta poi con gli aspetti normativi e a quello che si andrà a scrivere in etichetta. Il mondo della tradizione e della denominazione di origine si va a confrontare allora con la sfera della creatività, dove i rigori del disciplinare possono talvolta essere vincolanti” ha detto Gaeta nella sua introduzione. “ Vogliamo capire insieme allora quanto questi due mondi possano convivere condividendo gli stessi valori. È giusta questa contrapposizione o potrebbe essere pensabile una revisione del modello che disciplina il rapporto tra il territorio e i disciplinari di produzione? “Perché  – ha continuato l’accademico- produttore non ci dimentichiamo che mentre noi ne discutiamo, il 60% del vino mondiale è fuori dalle denominazioni, non si pone il problema o si approccia al rapporto con il territorio in modo diverso.

Marco Sartori ha spiegato la sua scelta fino dai suoi esordi a capo dell’azienda nel 1996 di rimanere nell’ambito della DOC anche nel momento in cui, nell’epoca dei Supertuscans poteva sembrare che fosse quella la strada più facile:Nel nostro territorio avevamo la fortuna di avere il modello dell’Amarone che stava crescendo in notorietà e ho deciso di puntare sulla Denominazione, cercando di lasciare un segno sul territorio, perché credo, citando Carlo Petrini, che il nostro dovere sia quello di essere custodi del territorio e curare le Denominazioni come un bene comune”.

E non significa che non si debba mai cambiare ma che sia importante, ha aggiunto Sartori, essere parte attiva e capire quando è il momento giusto per dare delle regole, modificarle, includere o mediare, senza forzare i tempi e perdere in tipicità e credibilità, come è avvenuto ad esempio nel caso del Ripasso, inserito e regolamentato nell’ambito del disciplinare solo quando i tempi sono stati maturi.

I disciplinari infatti si possono cambiare ha osservato Davide Gaeta e a volte, come è avvenuto nel caso della creazione della Gran Selezione per il Chianti Classico DOCG, è stato necessario farlo dal momento in cui c’erano vini iconici e di valore che ne uscivano scegliendo l’IGT.

Anche Mattia Vezzola è sostenitore della necessità di creare valore sui territori nel tempo, di generazione in generazione e di farlo dall’interno delle denominazioni. “Troppo spesso si parla di grandi vini, ma i grandi vini sono pochi, sono solo quelli che con Denis Dubordieu provammo a codificare: vini che hanno un prezzo elevato e lo mantengono per duecento anni e che hanno la capacità di vivere a lungo mantenendo la loro identità. Bisogna anche avere il coraggio di non cambiare e di lavorare con prospettive di lungo periodo, investendo sulla ricerca e in modo particolare sulla genetica” ha spiegato.

Di identità e tipicità ha parlato Maurizio Ugliano: “La prima è l’idea, quello che il produttore vuole da un vino, la seconda è il valore che nella Denominazione fa in modo che il vino corrisponda a un tipo, un modello riconoscibile e riconosciuto. Il problema forse è che questo tipo spesso non è codificato né tantomeno spiegato al consumatore “Le denominazioni” ha aggiunto Ugliano “non spingono per inserire la descrizione di questi tipi nei disciplinari, dove troviamo termini generici come vinoso e franco o inadatti come è ad esempio l’aroma di ciliegia, frutto decisamente inodore, per il Valpolicella. Occorre anche uno sforzo maggiore per collaborare con la comunità scientifica nel classificare, organizzare e raccontare la tipicità. I disciplinari spesso risultano anacronistici sotto diversi aspetti perchè le condizioni stanno cambiando, l’ambiente stesso e il clima richiedono che si rivedano alcuni vincoli che non sono più attuali e dobbiamo avere la possibilità di studiare e attingere dal grande patrimonio di varietà che non si ritenevano adatte a fare qualità in passato, ma che nelle condizioni attuali non possono più essere considerate un esotismo”.

“Negli ultimi trenta o quarant’anni siamo cambiati, è stato ribaltato il concetto stesso di viticoltura ed enologia, ora c’è bisogno di fare chiarezza ricreando una coscienza di appartenenza e la consapevolezza che fare impresa in viticoltura significa anche tutelare il paesaggio e creare ricchezza intellettuale e umanistica” ha aggiunto Mattia Vezzola.

Gaeta, Vezzola, Sartori e Ugliano ci hanno lasciato quindi con alcuni messaggi chiari e molte domande aperte, moniti di saggezza più che altro ad agire sempre con correttezza e misura: rispettare i territori, le identità e le tipicità, avere il coraggio di mantenere il timone dritto ma allo stesso tempo anche di cambiare nel momento giusto, con il supporto della ricerca e quando i tempi sono maturi per farlo e infine essere in grado di differenziare, dando il giusto valore ad ogni vino, alto per i grandi vini (che sono pochi) e più basso (ma giusto) per gli altri. La scala di valore insomma, sia essa per una Denominazione di Origine o per una IGT, deve sempre essere coerente e credibile, perché non accada che il consumatore legga sempre di annate del secolo e grandi vini e trovi poi quegli stessi territori in offerta a pochi euro.